Le proteste degli agricoltori indiani, cha accompagnano la tragedia sanitaria di Nuova Delhi ormai dagli ultimi mesi del 2020, sono l’esito delle politiche economiche di Narendra Modi ma non sono destinate a rimanere isolate alla sola India e i loro effetti, diretti e indiretti, si faranno sentire su tutta la regione del Subcontinente. L’instabilità sociale che turba Nuova Delhi deriva dalla riforma agraria promossa dal governo del conservatore Bharatiya Janata Party (BJP) che, secondo molti analisti, nascondeva, dietro una dichiarata semplificazione delle procedure di mercato, una selvaggia liberalizzazione. Ma si protrae grazie ad una nascente solidarietà fra le caste più basse e assume anche contorni interreligiosi, coinvolgendo anche numerosi contadini musulmani.
La percentuale di popolazione ancora dipendente dal mercato agricolo locale per la sussistenza è molto alta (secondo una ricerca della FAO si aggira intorno al 70% per l’India). Per questo le rivolte che sconvolgono una grossa parte della regione non possono essere sottovalutate. Nonostante questo, gli organi di informazione indiani trattano le proteste come azioni destabilizzanti non estranee ad influenze straniere e molti quotidiani come “Hindustan Times” stanno iniziando solo dopo molti mesi a considerare le agitazioni. Anche il governo guidato da Narendra Modi sostiene la teoria che le proteste dipendano da una non meglio precisata “Foreign Destructive Ideology” (con lo stesso acronimo di Foreign Direct Investment) messa in piedi da potenze straniere. La narrativa del BJP è sbilanciata verso il paradigma nazionalista ma è forse possibile rintracciare nel frammentato universo della rivolta rurale una certa influenza da parte di una componente islamica, che qualcuno immagina legata al Pakistan. Fonti di diversa origine testimoniano il rischio di penetrazione di armamenti pakistani attraverso la permeabile frontiera del Punjab, come riferito dal primo ministro del governo dello stato indiano a gennaio. Teorie rilanciate da diversi media indiani, ma smentite ripetutamente da Islamabad.
E’ facile comprendere come la protesta agricola abbia riscontrato il favore di larghi strati della popolazione musulmana indiana, dal momento che gran parte di essa è concentrata nel nord ed è impiegata in buona percentuale nel settore primario. Nelle primissime fasi, pur essendo il movimento di protesta dei lavoratori e produttori agricoli nettamente trasversale alle fazioni politiche e alle varie etnie, non esisteva un coordinamento inclusivo. Il coordinamento fra le varie componenti è invece avvenuto a partire dal mese di marzo essenzialmente in funzione anti-BJP, trasformando le proteste in una vera e propria rivolta anti governativa che Nuova Delhi fatica a circoscrivere e che ha ormai assunto proporzioni regionali.
Oltre ai sospetti indiani sul ruolo di Islamabad un secondo elemento, eminentemente economico sociale, è emerso nei mesi di febbraio e marzo, quando alcuni movimenti legati a partiti di opposizione in Pakistan hanno tentato, seppur con risultati non molto rilevanti, di organizzare il malcontento contadino e mettere in piedi azioni di solidarietà con la vicina protesta indiana. La forza politica promotrice delle proteste è il Pakistan Democratic Movement (PDM), formazione trasversale condotta da un estremista religioso: il Maulana Fazlur Rehman. Oltre a rappresentare le istanze fondamentaliste ed estremiste il PDM ha una dichiarata vocazione antimilitare, e si è schierato in varie occasioni contro l’esercito pakistano. La questione delle agitazioni degli agricoltori non è quindi né circoscritta né circoscrivibile alla sola India ma può arrivare a una dimensione regionale e potrebbe portare, anziché ad una ridefinizione del peso dei produttori agricoli indiani, ad una ulteriore complicazione degli aspetti della sicurezza nell’area, con problemi di instabilità regionale più che nazionale.
Di Francesco Valacchi*
*Dottorato in Geopolitica presso l’Università di Pisa. Collabora con “Affarinternazionali”, “Geopolitica.info”, “Ispi-online”, “RISE” (del TWAI), “Pandora rivista”, “Dialoghi Mediterranei” e altre riviste