Chiacchiere da banchetto del tè e vecchie signore al mercato incrociati con dati statistici e titoli della stampa. La crisi indiana si sente anche nella campagna del Bengala Occidentale, tra rincari di riso e verdure e acquisti di gadget elettronici rimandati a tempi migliori.
Quando anche gli artisti si improvvisano economisti, è il momento di iniziare a preoccuparsi.
Succede a Santiniketan, cittadina universitaria immersa nel verde a tre ore di treno da Calcutta, nel Bengala Occidentale.
L’università Vishva Bharati di belle arti fondata dal premio Nobel per la letteratura Rabindranath Tagore agli inizi del Novecento, famosa in tutta l’Unione Indiana, accoglie ogni anno aspiranti pittori, scultori ed artisti di ogni sorta. Il ritrovo giornaliero dei nuovi visionari indiani, sfidando il caldo che nel mese di maggio raggiunge vette di 48 gradi, è il chiosco del tè di Nabadwip, il tè peggiore e più conveniente di tutta la città: solo tre rupie.
A differenza di altri tempi migliori, quando si poteva passare il pomeriggio a discutere di letteratura – rigorosamente tagoriana, purtroppo – o ascoltando i progetti delle prossime esposizioni, alcuni giorni fa mi sono sentito dire da Sajad, pittore della regione nord occidentale del Kashmir: “Hai sentito che la rupia è scesa quasi a 60 col dollaro?”
La barriera dei 60 – 60 rupie per un dollaro – è considerata il punto di non ritorno della crisi economica indiana, e la valuta nazionale, verso la fine di maggio, ha sempre aperto in modo disastroso. Il 31 maggio, ad esempio, i giornali hanno nuovamente lanciato l’allarme: 56,6 rupie per un dollaro, qualcuno deve fare qualcosa.
Sajad mi spiega che più la rupia è debole contro il dollaro, più si alzano i prezzi delle importazioni tecnologiche e di tutti i gadget che oggi fanno gola alla classe media indiana: computer, televisioni, telefonini – le pubblicità della tv sono monopolizzate da spot di telefonini ultima generazione – e, ora che fa davvero caldo, anche condizionatori.
Chi vuole togliersi lo sfizio hi-tech ora preferisce aspettare, sperando in un rimbalzo dell’economia indiana che, con una valuta debole, potrebbe far ripartire con più vigore la macchina delle esportazioni, ammesso che i grandi compratori globali – Europa, Stati Uniti, medioriente – riescano ad uscire da una crisi che, appare chiaro, tutti stanno scontando.
Nel tentativo di arginare gli effetti deleteri di una crisi che, dicono a Delhi, l’India sta soffrendo a causa della situazione del debito in Europa – dove Grecia e Spagna sono sull’orlo del defalut – il governo ha annunciato un rincaro del prezzo della benzina di 7 rupie al litro.
Pochi istanti dopo la dichiarazione del ministro delle Finanze Mukherjee, l’uomo che dovrebbe trainare la seconda potenza economica dell’Asia fuori dal baratro, sono piovute critiche da parte dell’opposizione.
Le due principali forze di opposizione, il Bharatiya Janata Party (Bjp, partito conservatore hindu) e i partiti delle sinistre riuniti nel Left Front, hanno immediatamente indetto uno sciopero generale nazionale che il 31 maggio ha paralizzato gran parte delle attività nelle frenetiche metropoli del subcontinente, Delhi e Mumbai comprese.
In un paese dove la quasi totalità delle merci trasportate si muove su strada, un ulteriore rincaro della benzina è destinato a riflettersi sui prezzi dei beni di consumo giornalieri come riso e verdura.
Nelle città in particolare, dove gli ortaggi del giorno arrivano dopo tragitti da Odissea per le arterie diroccate del sistema stradale indiano, i prezzi sul mercato sono sensibilmente aumentati: la stampa indica che nel mese di aprile, rispetto al mese precedente, l’inflazione su verdura e riso è aumentata di oltre il 10 per cento, 12 per cento per elettricità, benzina, vestiario.
Ma al di là delle cifre ufficiali, il vero termometro della crisi si manifesta nella sua forma fisica tra i teli stesi a terra lungo la via principale di Santiniketan. Davanti a chili di verdura dosati con cura per mezzo di bilance a mano, le vecchie signore di Santiniketan ingaggiano ogni mattina una tenace battaglia all’ultimo prezzo contro i venditori locali.
L’arte della contrattazione, raffinata nel tempo, è una delle poche attività permesse alle donne nella società rurale del Bengala Occidentale. Ed è un’arte che le signore maneggiano con una destrezza impressionante.
Osservandole aggirarsi tra patate, okra, pomodori e melanzane, si impara a modificare la propria lista della spesa sul momento, seguendo i consigli delle migliori analiste economiche del paese.
In questo periodo, ad esempio, meglio comprare più patate e cavoli – costano poco, durano tanto al caldo, molto duttili in cucina – e meglio evitare okra, cavolfiori e pomodori, che vengono da lontano e costano molto di più.
Per il riso, recentemente aumentato di una sola rupia al chilo, il problema non è tanto il rincaro in termini assoluti, quanto abbinato alla mole che se ne consuma in Bengala, dove colazione, pranzo e cena sono rigorosamente a base di bhat, riso in lingua bengali.
Una consuetudine che si è imposta anche sulla lingua bengali, dove per dire “hai mangiato?” si chiede “bhat kecho?”, ovvero “hai mangiato del riso?”.
Per risparmiare molti cercano di comprare riso direttamente dal contadino, saltando gli stadi della filiera dove si manifestano i rincari. Un’opzione che gli abitanti delle metropoli si sognano.
Come se non bastasse, mentre il paese si aspetta un intervento della Reserve Bank of India che possa scaricare la pressione dell’inflazione dalle tasche della popolazione, in India sta arrivando la stagione dei monsoni.
Non solo in balia della crisi globale, del debito europeo e delle oscillazioni dei barili di petrolio mediorientali – dove l’India compra quasi il 60 per cento del greggio che è costretta ad importare – ma anche delle piogge: l’effetto che i monsoni avranno sul raccolto, forse più della politica, sarà decisivo per determinare il futuro prossimo del gigante asiatico.
[Scritto per La Nación] [Foto credit: Matteo Miavaldi]