Breve saggio sulla pittura di Tagore. Come il tema della tristezza, del subconscio e l’influenza delle tragedie famigliari del poeta hanno influito sulla sua produzione pittorica, che Rabindranath stesso descrisse come "un dono destinato all’Occidente".
Il 15 ottobre 2011 si è tenuta a Roma una conferenza di Sudhir Kakar, saggista e scrittore indiano, sul tema del “Subconscio nei dipinti di Rabindranath Tagore”. Analoga lettura era stata da lui presentata alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di New Delhi nell’ambito delle celebrazioni per il 150° anniversario della nascita del poeta.
La Galleria Nazionale di New Delhi possiede circa cento quadri di Tagore ed è certamente una sede appropriata. Il Tagore pittore, invece, è pressoché sconosciuto in Italia e ciò pone un serio limite alla comprensione dei molti temi connessi alla sua arte.
Kakar, per altro, ha voluto sottolineare fin dall’inizio come il suo approccio sia eminentemente analitico, non essendo egli un esperto né di Tagore, né di storia dell’arte. Le sue riflessioni sono interessanti, anche perché sembrano essere in sintonia con un’interpretazione corrente, tanto in India che in Bangladesh, dei motivi profondi dell’arte di Tagore. Vale la pena di esaminarle da vicino.
Va detto che l’attività pittorica di Rabindranath è oggetto da anni di un interesse “analitico”; già in un saggio di Ajit Mookerjee sulla pittura moderna indiana, pubblicato nel 1956, si parlava di “inconscio”, di “unicità” e “irripetibilità” dell’esperienza grafica e pittorica del poeta.
Quando, dopo cinquant’anni di attività letteraria, Rabindranath cominciò a disegnare e a dipingere, rimosse molte barriere ed esplorò territori completamente nuovi. Barriere biologiche e psicologiche vennero dissolte: uomini, bestie, flora, fauna assunsero a tratti un aspetto bizzarro e terrifico. Fu come se lui si fosse staccato da un mondo di inibizioni, dando libero corso alle forze primordiali dell’inconscio.
Graffiando con la penna, tamponando con un panno imbevuto di colore e strofinando con un dito, ha lavorato selvaggiamente, disegnando senza fermarsi a riflettere o correggere. Usava ogni tipo d’inchiostro a portata di mano, per lo più quello delle penne stilografiche. Quando non ne aveva, schiacciava i fiori e li usava come pigmenti.
I numerosi dipinti del periodo rivelano nuovi aspetti nell’apparenza delle cose… Rabindranath ha lavorato in modo tale da obbligare i suoi oggetti a rivelare il loro carattere essenziale, come esso appariva alla sua immaginazione – un’immaginazione che si diletta nel misterioso. Per dirla con parole sue: “L’unica prova di verità nell’arte esiste quando essa ci obbliga a dire ‘io vedo’. Possiamo anche trascurare un asino in Natura, ma un asino in Arte lo dobbiamo riconoscere, anche se fosse una creatura che vergognosamente ignori tutte le sue responsabilità in termini di storia naturale, perfino se avesse una testa che somiglia a un fungo e una coda a foglia di palma.”
Quando gli dissero che la sua era l’arte di un folle, commentò: “I miei quadri non nascono da una scuola, da una tradizione o da un tentativo deliberato di illustrare.”
Ciò che è più sorprendente nel dramma di questo uomo solo, in questa avventura di una figura epica, è la velocità con la quale questo grande poeta, nella sua ricerca delle forme, ha raggiunto delle conclusioni non molto differenti da quelle dei suoi contemporanei europei. Né tantomeno si limitò a rappresentare una forza negativa: mentre rompeva con le convenzioni onorate nel tempo, egli costruiva un mondo tutto suo. Quel mondo è inimitabile – (Tagore) non ha avuto discepoli, perché, senza dubbio, la sua arte non è il risultato di una qualche teoria preconizzata, ma il riflesso di una personalità creativa unica.
(Ajit Mookerjee, Modern Art in India, Calcutta – New Delhi: Oxford Book & Stationery, 1956. pp. 14-16.)
Lo storico dell’arte indiana W.G. Archer, nell’ambito delle pubblicazioni celebrative per il centenario del poeta (1961), scrisse in una nota sulla pittura di Rabindranath:
Rabindranath Tagore aveva già 67 anni quando, nel 1928, cominciò a fare dei quadri. I suoi primi disegni erano stati le cancellature sui manoscritti; ma fra il ’28 e il ’30 egli si valse deliberatamente degli strati inconsci della sua personalità, con opere in cui solo nelle ultime fasi della composizione le sembianze di determinati oggetti facevano la loro improvvisa, imprevedibile apparizione. Occorre distinguere pertanto due fenomeni: la forma, come manifestazione del dettato originario, e l’oggetto come sviluppo finale della medesima. I due momenti sono in genere perfettamente distinti, e il risultato è un’arte che spesso sembra occuparsi di animali, di mostri, di uomini e di donne, ma il cui stile esprime uno stato d’animo di sfida sdegnoso.
(Ajit Mookerjee, Modern Art in India, Calcutta – New Delhi: Oxford Book & Stationery, 1956. pp. 14-16.)
Queste citazioni non sono qui a dimostrare che il soggetto della conferenza di Kakar non è nuovo, il punto non è questo. Servono, semmai, a mettere brevemente in luce quale fu la difficoltà sperimentata negli anni ’30 da Tagore, ormai anziano e minato nella salute, a far accettare la sua arte. Egli era talmente consapevole delle resistenze che avrebbe incontrato, che per mesi non fece vedere a nessuno i suoi lavori, né volle firmarli. Nel dicembre 1929 disse al suo amico Suniti Chatterji:
Vivo o morto, non renderò mai pubbliche queste creazioni nel mio paese. Non sarà concesso ai miei quadri di essere esposti allo stesso oltraggio delle mie altre opere.
(Il dialogo trascritto è apparso su Visva-Bharati Quarterly, May-Oct. 1990, p. 142. Citato in Krishna Dutta and Andrew Robinson, Rabindranath Tagore: The Myriad-Minded Man, London: Bloomsbury Publ., 1995, p. 287.)
In quelle parole c’è l’amarezza di un uomo che nel profondo ha sempre sentito di non essere compreso dai suoi contemporanei, malgrado i riconoscimenti internazionali, segnatamente il Nobel per la letteratura nel 1913, e l’orgoglio nazionalista che tali riconoscimenti avevano suscitato in Bengala e nel resto dell’India.
Tale consapevolezza fu particolarmente acuta negli ultimi anni di vita. L’arte visuale costituisce la sua ultima fase creativa, dipingere è la sua ultima fiamma vitale. I disegni, i quadri sono sue creature e lui le sente fragili, ben più fragili delle poesie e delle canzoni.
Presenterà i suoi dipinti per la prima volta a Parigi nel maggio 1930 alla Galèrie Pigalle, grazie all’aiuto e all’insistenza della sua amica Victoria Ocampo, poetessa argentina ormai ricordata quasi solo per la rivista Sur, dalle cui pagine prese le mosse il giovane Borges. A Monaco di Baviera, nel luglio di quell’anno, Tagore dichiarerà alla stampa:
La poesia è per i miei connazionali, i dipinti sono il mio dono all’Occidente.
(La dichiarazione apparve sulla Modern Review di Calcutta dell’ottobre 1930, p. 370. Citato in K. Dutta and A. Robinson, ibid.)
Parole con un duplice significato: da un lato vogliono dire che le sue poesie, scritte in bengalese, potevano essere godute al meglio dai bengalesi, mentre i quadri parlano il linguaggio universale delle immagini; dall’altro presagivano che le sue opere, quelle linee e quei colori apparentemente alieni alla tradizione artistica indiana, non potevano essere capite nella sua terra. Cosa che puntualmente avvenne per anni.

Chiunque si accosti all’opera grafica e pittorica di Tagore è invariabilmente colpito dal fatto che egli abbia cominciato a dipingere alla soglia del settantesimo anno di età. Fatto tanto più straordinario (ma forse si potrebbe anche dire proprio per questo) se si tiene conto che egli è vissuto in mezzo a contesti fortemente segnati dalle arti visive e da personalità artistiche.
Sin dall’infanzia nella casa di Jorasanko – quartiere di Calcutta – e poi per tutta la vita, egli è circondato da pittori: i cugini di secondo grado, Abanindranath e Gaganendranath Tagore, gli astri del modernismo bengalese, i loro discepoli, Jaimini Roy e il suo amico Nandalal Bose e molti altri. Aggiungiamo pure uno dei suoi mentori in Europa, il pittore William Rothenstein.
Tutti quei personaggi gli parlano di pittura e di estetica, tutti sperimentano e promuovono nuovi stili. Rabindranath si esprime con le parole e la musica, ma qualcosa, lentamente, sedimenta dentro di lui, le immagini si muovono dentro di lui passando dall’indistinto al distinto. Un’esperienza, quella della lenta sedimentazione del processo creativo, sperimentata anche da altri artisti moderni come Paul Klee.
Del resto Tagore, poeta e narratore, ha sempre costruito immagini con le parole: nei suoi paesaggi dell’anima l’acqua è ovunque, ovunque si riflettono alberi e foglie.
In età più giovane Tagore disegna: si tratta di ghirigori, di sgorbi, o più precisamente di correzioni dei suoi manoscritti. Non si limitava a semplici cancellature: elaborava la soppressione delle parole in forme semi-pittoriche, a volte astratte, a volte richiamanti le sagome di animali fantastici.
La Musa s’impadronisce di lui negli ultimi dieci anni di vita: oltre duemila dipinti, centinaia dei quali di grande valore artistico. Molte di quelle opere sono state realizzate su materiali deperibili, per questo all’inizio del 2011 il governo indiano ha finanziato un programma di digitalizzazione di almeno 1600 tra quadri e disegni del poeta.
Attualmente non esistono più di 350 riproduzioni. Il programma, con finalità di conservazione, porterà alla pubblicazione dei Rabindra Chitrabali (dipinti di Rabindranath) in quattro volumi a cura dell’università tagoriana Visva-Bharati.
Tornando alla conferenza di Kakar, tralasciando gli aspetti introduttivi e le citazioni di carattere biografico, i punti salienti sono stati quelli che hanno trattato: i) l’inconscio; ii) l’androginia; iii) la raffigurazione degli occhi; iv) la melanconia.
Non disponendo del testo, proverò a riassumerli a memoria, senza alcuna pretesa di essere assolutamente fedele ed esauriente.
– L’inconscio. L’opera pittorica di Rabindranath nasce come un processo di sedimentazione dell’inconscio. Un quadro che raffigura un fiore di loto viene assunto come simbolo del processo: le radici sommerse dall’acqua affondano con evidenza nel fango, da qui l’equivalenza: fango = subconscio.
– L’androginia. L’autoritratto è un tema ricorrente nei disegni e nei quadri di Tagore; Kakar ne mostra uno nel quale il poeta ha raffigurato il suo stesso volto come volto di donna. L’ambiguità uomo/donna nella figura umana è presente in una parte della sua produzione.
– Gli occhi. Nella raffigurazione delle persone, contadini, contadine, ecc. gli occhi hanno un ruolo centrale. Colpisce la persistenza dell’espressione dolente. In un passaggio, citato forse da una lettera, il poeta dice che nei suoi quadri manca la risata e non sa spiegarsi perché, dal momento che a lui ridere piace. La sua conclusione è che doveva esserci nel suo profondo un tocco di tristezza. Quello della tristezza è un punto chiave.
– La melanconia. In sostanza, dice Kakar, l’arte pittorica di Tagore è segnata dalla tristezza, o più precisamente dalla melanconia: dai paesaggi ‘spiritualizzati’ alla rappresentazione del corpo umano. Il termine, direi, è assai pregnante nelle teorie dell’arte – soprattutto nell’ambito della scuola iconologica, da Warburg a Panofsky. Kakar parla di un predominio di ombre color senape, marrone e verde scuro. Non mi sembra abbia citato il fatto che Tagore soffriva di protanopia, una forma di daltonismo che non consente di visualizzare bene il colore rosso. Un semplice dettaglio forse, che, però, può avere tanta rilevanza quanto ne ha il fatto che le sue ultime suonate Beethoven le abbia composte quando era sordo. La melanconia in Tagore, per Kakar, non ha a che vedere con la vecchiaia o con uno stato d’animo, è una componente permanente della personalità del poeta e si ricollega al senso di perdita che ha segnato tutta la sua vita.
Certamente la vita di Rabindranath fu dolorosamente funestata dai lutti: nell’arco preciso di cinque anni, tra il 23 novembre 1902 e il 23 novembre 1907, egli perse cinque persone care. Morirono in successione: sua moglie Mrinalini Devi, 8 nove mesi dopo la figlia tredicenne Renuka. Nel 1904 morì improvvisamente un suo grande amico, il giovane poeta Satishchandra Roy. Il 19 gennaio 1905, all’età di ottantotto anni, il padre Debendranath, figura mitica della cultura bengalese, che aveva esercitato una profonda influenza sul figlio. Il colpo peggiore forse fu la morte di Sami, Samindranath, il figlio più piccolo morto di colera esattamente cinque anni dopo la madre, il 23 novembre 1907. La primogenita, Bela (Madhurilata), morì nel 1918, dei suoi cinque figli gli sopravvissero solo due, Rathindranath e Mira.
Tagore aveva perso la madre nel 1875, non ancora quattordicenne; lei per quell’ultimo figlio, nato ventuno anni dopo il primogenito, non aveva avuto più energie e l’infanzia di Rabindranath, affidato alla cura dei servitori della casa, fu una stagione di melanconia.
Quest’ultimo aspetto è stato sottolineato da Kakar ed è noto a tutti quelli che hanno letto la prima autobiografia di Tagore, Jīvansmrti (1911). Va detto, però, che Tagore fece un quadro un po’ diverso della sua infanzia nella seconda autobiografia, scritta due anni prima della morte e subito tradotta in inglese, My Boyhood Days (1940).
La perdita alla quale Kakar si riferisce è quella della cognata, Kadambari Devi, morta suicida il 19 aprile 1884. Le biografie del poeta hanno tutte sottolineato come ella fosse la cognata preferita del giovane Rabindranath e come avesse svolto nei suoi confronti un ruolo quasi materno dopo la morte della madre.
Minore attenzione è stata prestata, per molti anni, al fatto che Kadambari, nata nel 1860 o forse nel 1859, aveva solo uno o due anni più di Rabindranath. Quando si tolse la vita aveva circa venticinque anni; lo fece senza lasciare apparentemente una spiegazione del gesto. Scriverà Krishna Kripalani in quella che può essere definita una delle biografie ‘ufficiali’ di Tagore:
Il 19 aprile 1884 Kadambari Devi, la cognata preferita di Rabindranath, che era stata per lui l’amica di una vita e più che una madre, improvvisamente si suicidò. Aveva solo venticinque anni. Nessuno sa il perché. Se dei membri della famiglia conoscevano il segreto, quel segreto è morto con loro. In assenza di una qualche prova autentica, qualunque congettura, qualunque ipotesi azzardata sarebbe non soltanto inutile, ma anche oltraggiosa per la memoria di uno dei più splendidi esempi della femminilità indiana.
(K. Kripalani, Rabindranath Tagore: A Biography, London: Oxford University Press, 1962, p. 114. Ho parlato di biografia ufficiale, perché Kripalani, marito di una nipote di Tagore e suo collaboratore a Santiniketan tra il 1933 e il 1941, fu un personaggio noto nel mondo della cultura e della politica nell’India di Jawaharlal Nehru. Fu anche Ministro dell’Istruzione e della Ricerca Scientifica.)
Kakar di congetture ne fa. Quello che lui rimarca è che il suicidio avvenne circa quattro mesi dopo il matrimonio del poeta con Mrinalini. Per l’analista delle relazioni intime della società indiana – quella tradizionale e quella di oggi, il dramma può essere ipoteticamente inquadrato nel triangolo affettivo che sovente lega la giovane sposa, che entra nella famiglia allargata del marito, al cognato più giovane.
Il legame funziona tanto meglio, quanto più giovane è la sposa e quanto più si senta trascurata dal marito. Ovviamente questo quadro generale non può trovare sempre e comunque applicazione, tanto meno in un contesto così fuori dall’ordinario come quello della famiglia Tagore.
La tragica fine di Kadambari lascia insoluti molti nodi esistenziali nella vicenda di quella famiglia e di Tagore, allora ventitreenne. Krishna Dutta e Andrew Robinson hanno ricostruito con maggior precisione il fatto nella biografia del poeta.
Il 19 aprile 1884 lei (Kadambari) si avvelenò, forse con una dose eccessiva di oppio, e morì, probabilmente nel mattino del 21 aprile, assistita da medici eminenti. La polizia venne informata, ma il corpo non fu portato all’obitorio; piuttosto fu riunita una corte del Coroner a Jorasanko. A quanto sembra il verbale fu distrutto, insieme a una lettera di cui si mormorò, nella quale Kadambari avrebbe spiegato le ragioni del suo suicidio, e a tutte le sue altre lettere, presumibilmente per ordine di Debendranath, al fine di evitare scandalo. I giornali non riportarono il fatto; nel libro mastro di famiglia figura una voce: ‘Spese destinate a sopprimere la notizia della morte per la stampa: Rupie 52.’
(K. Dutta and A. Robinson, op. cit., p. 88.)
La coincidenza del suicidio di Kadambari con il matrimonio da poco celebrato di Rabindranath non può essere ignorata.
Si può ragionevolmente escludere che ci fosse gelosia o competizione tra la giovane colta e attraente e la sposa Mrinalini di appena dieci anni, secondo l’uso indiano delle spose bambine.
I biografi descrivono la piccola moglie del poeta come di famiglia modesta, "priva di attrattive", ma piena di virtù; partorirà la prima figlia, Bela, non ancora tredicenne. Debendranath la scelse per quel figlio più giovane, talentuoso e sognatore, in ossequio a una tradizione che voleva che gli uomini della famiglia Tagore sposassero donne di casta bramina Pirali. Tutti i matrimoni allora erano combinati, l’amore, come lo s’intende in occidente ai giorni nostri, contava assai poco.
Rabindranath, grazie al suo status e ai suoi viaggi, aveva anche avuto la fortuna, se così si può dire, di innamorarsi o quasi, molto probabilmente ricambiato, di una ragazza bella e sofisticata, Ana Turkhud. Era la figlia di un amico dei Tagore, Atmaram Turkhud, noto medico e scienziato progressista di Bombay, lui l’aveva conosciuta durante un soggiorno in India occidentale.
Nel 1879 Atmaram incontrò Debendranath a Calcutta e sembra che gli abbia proposto un accordo matrimoniale per i due ragazzi. Il Maharishi, però, che, in quanto leader del Brahma Samaj, era di vedute radicali (e non sempre) in materia di filosofia e religione, era terribilmente conservatore in tutto ciò che riguardava usi e consuetudini sociali.
Lo stesso Rabindranath osteggiò più volte, anche con il mezzo della poesia satirica, la consuetudine tradizionale delle spose bambine; ma per tutta la vita lui, come i suoi brillanti fratelli, ha sempre piegato la testa al volere del padre, figura veramente straordinaria di padrone/santone.
Anche Kadambari era una bramina Pirali. Aveva circa nove anni quando nel 1868 sposò Jyotirindranath, uno dei fratelli maggiori del poeta che all’epoca ne aveva circa diciannove. Jyotindranath era il fratello al quale Rabindranath era più affezionato. Di temperamento eclettico, era incline al nazionalismo; forse per amore della nascente industria nazionale si dedicò al mondo degli affari, per il quale non era tagliato. Perse così somme ingenti. Come molti altri membri della famiglia, era dotato di talento artistico, che esprimeva nella musica e nel teatro.
Kadambari era appassionata di letteratura. Il giovane Rabindranath passò con loro buona parte della sua giovinezza a Calcutta, ma anche nell’India occidentale e perfino in una splendida vacanza a Karwar, un posto descritto come di sogno poco lontano da Goa. Tra loro tre era l’idillio, fatto di musica, canzoni, poesia.
La vicenda del rapporto tra Kadambari e Rabindranath, del loro possibile amore, è stata catturata con grazia dal regista Satyajit Ray nel film Charulata, basato sul racconto di Tagore Nashtanirh (1901), che descrive lui, il fratello e la cognata. E’ un’atmosfera carica di tensione erotica quella che circonda i due giovani, ma una tensione che non sfocia nel reale, legata com’è all’ideale di situazioni immaginarie. Lui chiamerà Kadambari Ecate, come l’inquietante dea greca della notte, lei, per contro, lo ribattezzerà Bhanu (sole), nome con il quale il giovane poeta compose finti canti vaisnava medioevali.
Le cause del suicidio di Kadambari sono e resteranno ignote, ma senz’altro furono molteplici. Per prima cosa il fatto di non avere avuto figli, un dramma per una donna di una società tradizionale; una bambina di famiglia, da lei adottata, era morta all’età di cinque anni.
Poi le vicende del marito, il suo tracollo finanziario, o forse ancor di più il fatto che fosse così universalmente ammirato, che tanto piacesse alle signore, tra le quali, sembra, un’attrice famosa del tempo. Anche il rapporto con il cognato giovane, in bengali debar, la cui etimologia sanscrita sta per "secondo marito", doveva crearle altre afflizioni.
Il giovane era diventato uomo e doveva allontanarsi da lei, quell’unione così poco convenzionale doveva venir meno. Aggiungiamo infine la relazione non facile con le altre donne di famiglia, improntata a un certo ostracismo, e arriviamo al punto dove prevalsero solitudine e disperazione.
Dal giugno 1883 cominciò a soffrire di una malattia, non si sa quale, ma non si può escludere che si sia trattato di una forma di depressione.
La disperazione colse anche il poeta. Nella prima autobiografia del 1911 scrive che dal giorno della scomparsa di Kadambari la morte aveva fatto il vero ingresso nella sua vita e vi sarebbe rimasta per sempre.
Il dolore di quel giorno dovevo portarlo perennemente inalterato nel cuore.
Non avevo mai pensato che ci potesse essere una interruzione nella catena di gioie e dolori della vita; l’avevo accettata così come si presentava in tutto e per tutto, e non potevo vedere nulla al di là di essa. Ma quando, improvvisa, venne la morte, e in un momento apparì uno strappo in quel tessuto tutto eguale, io ne rimasi sbalordito. Gli alberi, la terra, il suolo, le acque, il sole, la luna, le stelle, tutto intorno restava immutabile e vero, come prima, eppure la persona che fra tutte queste cose era ugualmente una realtà, e che anzi, per i mille punti di contatto con la mia vita, con la mente e col cuore, era per me più vera e reale d’ogni cosa, era svanita in un momento, come un sogno. Quale contraddizione perenne vedevo in tutto ciò che m’era intorno! Come avrei mai potuto conciliare quel che rimaneva, con ciò che era scomparso?
(R. Tagore, Oltre il ricordo, a cura di Brunilde Neroni (t. it. Di Jivansmrti), Palermo: Sellerio, 1987, pp. 203-204.)
Kadambari costituì senza dubbio l’influenza femminile più importante nella vita del giovane Rabindranath. A lei dedicò tre o forse quattro libri quando era in vita e due dopo la morte, alla moglie non dedicò che alcune poesie. Come egli stesso spiega, la sua concezione filosofica e religiosa della vita lo aiutò a superare i momenti di vuoto e sconforto.
Gli anni della maturità furono densi di idee e di impegni: il premio Nobel per la letteratura nel 1913, giunto come un fulmine a ciel sereno, il primo conferito a un autore non europeo; la fondazione dell’università di Shantiniketan (1921); i suoi tour internazionali e le conferenze per diffondere le idee di pace dopo i disastri della prima guerra mondiale; i suoi rapporti con intellettuali di tutte le nazioni e, in ultimo, quella sua utopia di costruire attraverso la cultura un mondo di comunicazione, dove Oriente e Occidente potessero incontrarsi e darsi reciprocamente il meglio.
Tutto questo lo impegnò per quasi vent’anni, al termine dei quali ritrovò nel suo Bengala rurale l’ispirazione per una riflessione profonda, a tratti amara, sulla vita e sulla storia, espressa non solo a parole, ma anche per immagini.
Ecco dunque emergere tra i ricordi il volto delle persone care scomparse. Affiorano nell’intimità confondendosi gli uni con gli altri e con il suo stesso volto. E a Nandalal Bose, il grande pittore suo amico che gli chiede chi sia mai quel volto misterioso di donna che compare continuamente nei suoi quadri, risponde che potrebbe essere Kadambari.
… i cui occhi splendenti si presentano tanto spesso alla mia vista.
(La storia è raccontata nella biografia di Hiranmay Banerjee, Rabindranath Tagore, New Delhi: Publications Division – Ministry of Information and Broadcasting, 1971, p. 154.)
Queste parole, riportate dall’artista e pubblicate più di trent’anni dopo, hanno costituito probabilmente il punto di partenza dell’indagine di Kakar, il quale va ancora più in là, assimilando nella raffigurazione degli occhi l’immagine della giovane suicida e gli autoritratti dell’anziano poeta.
Il simulacrum di Kadambari sta diventando un motivo corrente e forse ingombrante nell’interpretazione dell’arte pittorica di Rabindranath. Il 15 giugno 2010 si è tenuta presso Sotheby’s a Londra un’asta di dodici dipinti di Tagore. Tagore non ha mai venduto i suoi quadri, quelle dodici opere furono un regalo a Leonard e Dorothy Elmhirst.
Elmhirst, un ingegnere agrario, amico, segretario e soprattutto anima del progetto rurale del poeta a Sriniketan, fondò la Darlington Hall Trust in una località vicino a Totsen nel South Devon, una fondazione a scopi benefici. Nel tempo la fondazione ha attuato diversi programmi e, avendo bisogno di fondi per ampliare la sede e l’attività, ha deciso di mettere all’asta quei dipinti di Tagore in suo possesso.
La cosa ha scatenato la protesta del Tagore Centre di Londra e di riflesso anche di alcune voci istituzionali dall’India. L’accusa era quella di voler disperdere l’eredità culturale indiana del ‘900, disonorando, si è anche detto, perfino la memoria di Elmhirst.
Il primo ministro dello stato indiano del Bengala, Buddhadeb Bhattacharjee, ha invitato il capo del governo centrale, Manmohan Singh, a esercitare pressioni perché l’asta non avesse luogo, o, in alternativa, ad acquistare in blocco i dipinti. Nessuna delle due cose è stata possibile, i quadri sono stati venduti, per lo più ad acquirenti indiani, alla cifra ragguardevole di un milione e seicentomila sterline, più di due milioni e duecentomila dollari (al giugno 2010).
Tra i dipinti figura il ritratto di una donna (venduto a 313.250 sterline) alcuni giornali indiani, ancora prima dell’asta, avevano avanzato la congettura che si trattasse di un’immagine di Kadambari.
Al Festival della Cultura Indiana a Mosca, tenutosi tra il 17 e il 30 settembre 2011, l’ambasciata indiana ha presentato la riproduzione digitale di diverse opere del poeta. Sul sito web della Moscow Durga Puja Association, dedicato all’evento, si legge che di particolare interesse sono le immagini di donne velate che rappresenterebbero Kadambari Devi, la tragica Musa di Tagore, della quale viene tracciato un breve profilo. Questi sono esempi di quella che si può giudicare una chiave di lettura insistente.
Di Kadambari Tagore scrisse tutta la vita, la sua presenza aleggia in molti componimenti scritti negli anni successivi alla sua morte e anche nel decennio 1891-1901, quando Tagore, su ordine del padre, si trasferì a Shelidah nel Bengala orientale, oggi in Bangladesh, per curare i possedimenti di famiglia.
Di lei scriverà anche negli ultimi anni, quando le immagini della giovinezza affiorarono con maggiore intensità sulla superficie dei ricordi. Il ricordo della cognata bambina e di lui bambino sembra schiudersi nei versi di Akashpradip, una delle sue ultime poesie (8 aprile 1939).
Cerco, esitante, di farmi vicino a lei, vestita
di un sari a strisce,
mentre turbina la mia mente. Ma il suo cipiglio
non lascia dubbi:
io bambino,
non ero bambina,
ero una razza diversa.
(Citato in K. Dutta and A. Robinson, op.cit., p. 63..)
Della sua età matura si può dire che un certo numero di poesie che sono state interpretate alla luce del misticismo del poeta, potrebbero avere un carattere elegiaco. Alcune sembrano parlare dello struggimento dell’anima per l’ineffabile presenza/assenza del Brahman, ma potrebbero forse alludere allo struggimento umano per la perdita di una presenza cara. Ho in mente il componimento che dà il titolo alla raccolta La barca d’oro (Sonār Tarī 1894):
Nuvole brontolano nel cielo, piove a dirotto. Siedo sulla riva del fiume, triste e solitario,
i covoni ammucchiati, il raccolto finito. Gonfio il fiume, selvaggia la sua corsa.
Come abbiamo tagliato il riso è cominciata la pioggia.
Una piccola risaia e nessuno, tranne me. Acque alte girano vorticosamente ovunque. Sulla riva lontana alberi strisciano come di inchiostro
le ombre
sopra un villaggio dipinto nel grigio
del mattino profondo.
Da questa parte la risaia e nessuno, tranne me.
Chi si dirige verso la riva cantando? Mi sembra di conoscerla.
A vele spiegate, lei guarda avanti.
Le onde s’infrangono impotenti
su ogni lato della barca.
Guardo e sento di avere già visto quel volto.
Verso quale terra straniera tu navighi?
Vieni qui a riva, ormeggia la barca solo un po’. Poi andrai dove vuoi, dove avrai cura di dare,
Ma vieni qui a riva un momento, mostra il tuo sorriso. Porta via il mio riso dorato, quando salperai.
Prendilo, prendine quanto puoi.
Ce n’è di più? No, l’ho caricato tutto
quel mio duro lavoro qui in riva al fiume.
Mi sono separato da tutto, strato dopo strato. Ora prendi anche me, sii gentile, prendimi a bordo.
Non c’è posto, non c’è posto, la barca è troppo piccola. Carica del mio riso dorato, la barca è piena.
Le nuvole si trascinano avanti e indietro
nel cielo di pioggia.
Resto solo sulla nuda riva.
Ciò che è stato, è andato: la barca d’oro
ha preso ogni cosa.
William Radice, che con le sue traduzioni dal bengalese ha contribuito a rilanciare il valore poetico dell’opera di Rabindranath in occidente, sceglie il femminile per il pronome bengali che non distingue il genere. Lui vede nell’immagine della donna della barca d’oro e dell’uomo la distinzione tra ‘anima’ e ‘sé’.
Ma il lettore può anche vedere l’ombra di Kadambari che porta via con “la barca d’oro del tempo” – espressione che Tagore ha usato in altri contesti – i sogni di gioventù del poeta, abbandonandolo al suo paesaggio di desolazione.
Tuttavia, se si volesse cogliere nell’ opera poetica di Tagore solo gli aspetti elegiaci, per sottolineare la componente melanconica della sua personalità o del suo inconscio, tale interpretazione sarebbe considerata oltremodo riduttiva.
Non c’è dubbio che la poesia di Tagore sia molte altre cose: ad esempio l’espressione della sua concezione filosofica, improntata al teismo del Vedanta, ma attratta dalla devozione popolare dei vaisnava; il suo vitalismo a tratti allusivamente erotico; la ricerca della bellezza del suono nella forma lirica e soprattutto la dimensione folklorica.
E’ noto il rapporto che ha legato la poesia e la musica di Rabindranath al mondo dei Baul, menestrelli delle campagne bengalesi, la cui tradizione, allora principalmente orale, parla di una devozione istintiva, che non distingue tra la fede hindu e quella musulmana della gente dei villaggi.
Tagore ha sperimentato i loro suoni e i loro temi e anche per questo oggi, lui induista, è considerato il poeta nazionale del Bangladesh, paese a prevalente maggioranza islamica.
Non si vede perché un’analoga interpretazione riduttiva debba essere applicata all’opera pittorica di Tagore, dove apparentemente i temi sono molti – senza contare l’ampliamento di prospettive che avrà luogo con la pubblicazione di 1600 riproduzioni di opere in parte ignote.
Senza voler negare il peso della melanconia e del senso di perdita che lo accompagnò per tutta la vita, molte delle sue opere pittoriche sembrano rispondere solo ed esclusivamente a un suo bisogno creativo. Sono le opere che Archer ha giudicato più interessanti, quelle che sembrano promanare dai recessi dell’inconscio per assumere le forme di animali fantastici, o di fiori improbabili.
Sono linee che, come dice l’artista stesso, sembrano ignorare le responsabilità derivanti dalla storia naturale, le leggi della biologia. Nella loro forma finale potranno assomigliare agli incubi di Kubin, o alle stilizzazioni totemiche degli Haida della British Columbia (che Tagore visitò nell’aprile 1929), ma rappresentano in primo luogo se medesime.
Anche nella sua pittura la dimensione folklorica è fondamentale. Vale la pena di ricordare che negli stessi anni il folklore dei contadini bengalesi segna una nuova fase creativa del pittore e amico Jaiminy Roy. Tagore non dipinge secondo le forme tradizionali, cerca di cogliere, tuttavia, degli aspetti essenziali, I suoi soggetti umani sono sempre abitanti dei villaggi.
Tagore introduce un elemento di verticalità presente nel folklore indiano nelle rappresentazioni del mondo mitologico di alcune popolazioni tribali. La verticalità della figura umana consente il suo appaiamento con l’albero, che riveste sul piano simbolico, ma anche su quello reale, un peso importante nella cosmologia e nell’ecologia dell’India antica.
La folla di ritratti rimanda alle molte manifestazioni del Brahman, del quale, per il Vedanta, ma anche per il fisico Erwin Schrödinger, gli individui di ogni specie rappresentano le molte sfaccettature. L’autocoscienza di cui parlano i filosofi sarebbe dunque questo: comprendere la molteplicità dell’essere e superare la coscienza limitata dell’Io. Come rappresentarla per immagini, se non attraverso una folla di volti e di corpi che si sovrappongono, e che possono essere assimilati agli animali, o anche alle piante?
Fissare un contenuto eminente per tracciare un giudizio definitivo sull’arte di Rabindranath Tagore è probabilmente un esercizio inutile, la sua opera non si presta a essere affrontata su un solo versante. Quello fu l’errore di molti critici e lettori occidentali prima della seconda guerra mondiale, negli anni della sua enorme fama letteraria in tutto il mondo, che vollero vedere in lui solo il mistico sublime, l’uomo saggio venuto dall’Est.
La più utile e aggiornata biografia in inglese di Rabindranath, scritta da Krishna Dutta e Andrew Robinson, è intitolata significativamente Rabindranath Tagore: The Myriad-Minded Man. Quell’aggettivo, che nella nostra tradizione letteraria potrebbe suonar bene come "uomo dal multiforme ingegno”, fu usato da Coleridge come omaggio al genio di Shakespeare.
Suona bene anche come omaggio al genio di Tagore.
*Giuseppe Flora si occupa da anni di storia e cultura dell’India moderna. Su Tagore ha pubblicato il saggio, “Tagore and Italy: Facing History and Politics”, nel volume: Rabindranath Tagore: Reclaiming a Cultural Icon, Ed. by J. and K. O’Connell, Calcutta, 2009.