Ieri la nazionale di calcio dell’India è stata battuta 2-1 dalla rappresentativa del Guam, isoletta del Pacifico al momento in testa nel girone D (Guam, India, Turkmenistan, Oman) per le qualificazioni ai prossimi Mondiali del 2018. La prestazione infima della selezione del subcontinente ci dà l’occasione di riflettere un po’ sul tentativo di imporre il Pallone in un paese dove del calcio locale non gliene è mai fregato niente a nessuno, non per caso. La partita, disputata al GFA National Training Center di Tamuning, cittadina del Guam, non è stata trasmessa dalle televisioni nazionali, che pare abbiano i diritti per dare solo le partite casalinghe. Il che la dice lunga sulla presunta ondata di entusiasmo nazionale per il calcio, strombazzata in lungo e in largo agli inizi dell’esperimento della Indian Super League, il mini campionato che mischiava ex stelle del calcio nostrano e bolliti di varia provenienza a giocatori professionisti indiani (sul quale, dal punto di vista tattico/estetico, avevo già scritto qualcosa qui).
Il tenore dell’agonismo può essere restituito in parte da questo video delle highlights della partita, disputata in un campo di erba sintetica (che secondo alcuni avrebbe inficiato la prestazione della compagine indiana).
L’India era data per favorita secondo, un calcolo a spanne basato su ranking Fifa, demografia e precedenti della nazionale del Guam: l’ultima volta che aveva disputato un girone di qualificazione mondiale, nel 2000, aveva preso 16 gol dal Tajikistan e 19 dall’Iran. In due partite. Segnadone zero.
Oggi il Guam – 165 mila abitanti – occupa la 177esima posizione del ranking Fifa, mentre l’India – 1,3 miliardi di abitanti – è ferma al 141esimo posto.
Le cose sono andate diversamente, come abbiamo visto, lasciando trasparire ancora una volta la pochezza della nazionale indiana, un tratto che misura impietosamente la distanza tra le aspettative internazionali e la realtà della prova sul campo. Ripeto: le aspettative INTERNAZIONALI, poiché qui in India del calcio locale alla maggioranza della popolazione (tutta, anche e soprattutto quella che non viene raccontata dai media internazionali, non parla inglese, non ha potere d’acquisto e vive in stato di impermeabilità quasi totale alle influenze fashion/speculative della globalizzazione) non gliene frega assolutamente nulla.
La copertura mediatica, ugualmente, si adegua all’interesse della collettività. La notizia della sconfitta in Guam, sui principali media indiani, viene data in chiave di vergogna nazionale, ponendo l’accento sul divario demografico, come se la quantità di indiani che calcano il territorio potesse supplire al disinteresse collettivo (della gente e delle istituzioni) verso uno sport ormai imposto come inevitabile status symbol di modernità e apertura al mondo.
In poche riserve indiane (gli altri, indiani) di giornalismo gne gne gne che strizza l’occhio agli indiani upper class e/o della diaspora – giovani rigorosamente English Speaking, nati ricchi del boom che ha interessato i propri genitori, educati all’estero e, nei casi più disperati, autisticamente esperti di Premier League inglese – c’è chi si lancia in analisi tecnico tattiche del match. Come in questo articolo pubblicato da Firstpost, dove si magnificano delle presunte caratteristiche di palleggio e trame a centrocampo della nazionale indiana preferibili a quanto si è visto in campo, ovvero un "tutti su!" e lanci lunghi tipici del calcio pre pubertà.
L’India del vicino futuro, immaginata da chi sta fuori dall’India (imprenditori indiani e non e tutti coloro che dall’esplosione del calcio in India potrebbero trarre enormi profitti), non può esimersi dall’adeguamento socioantropologico del Pallone. Un Paese moderno degno di questo nome DEVE amare il calcio, DEVE giocare a calcio, DEVE entrare a far parte del baraccone del calcio mondiale che proprio in queste settimane si è mostrato all’opinione pubblica internazionale in tutte le sue sfaccettature criminali.
La missione di esportazione della cultura calcistica qui in India, ormai è chiaro, ha caratteristiche speculative che esulano completamente dall’immaginario culturale e popolare del paese. Il presunto interesse per il Pallone coinvolge, al momento, esclusivamente la fetta di paese che può vantare un potere d’acquisto sexy per il target del prodotto calcio: gente che guarda la tv satellitare, può comprare i prodotti pubblicizzati nei break (motociclette, automobili, occhiali da sole e vestiario di stampo occidentale) e divide la propria passione sportiva tra cricket e calcio straniero.
Se queste persone coincidono con la cosiddetta middle class, stiamo parlando di una fetta di quel 20 per cento di indiani sui quali si fanno analisi di mercato: significa una parte (contiamo solo i maschi) di quei 130 milioni di "nuovi benestanti". Si sta provando a creare un mercato che ancora non esiste, scommettendo sul successo di una passione inclucata in modo eterodiretto da un sistema-calcio globalizzato che sta provando a soppiantare l’egemonia culturale del cricket, il vero e unico sport popolare qui in India.
Il limite del cricket sta proprio nella sua regionalità: smuove soldi e entusiasmi solamente all’interno del Commonwealth, limitandone una concreta internazionalità che possa essere davvero globale. E in un momento in cui tutto lascia intendere un’apertura dell’India verso l’esterno, dal soft power alla commistione di tratti culturali, la multiculturalità sportiva si giocherà adeguandosi col di fuori, cioè iniziando – volenti o nolenti – a giocare a pallone.
Un processo simile ha interessato la Cina qualche anno fa, coi risultati ai quali abbiamo tutti assistito: Lippi che va ad allenare il Guangzhou, comparsate di ex stelle del "nostro" calcio occidentale, imprenditori cinesi che rastrellano proprietà calcistiche all’estero (da noi in Italia col Pavia, ad esempio); ma se nella Repubblica popolare il calcio ha occupato un posizione emotiva vacante (ai cinesi piace il ping pong, il badmington e la pallacanestro, a spanne), cioè uno sport che facesse presa sulla gente e che potesse essere monetizzato al di fuori della competizione agonistica, in India il cricket è già prepotentemente fenomeno sportivo come lo intendiamo oggi: i divi del cricket sono famosi al pari delle star di Bollywood (con le quali sovente si "fidanzano"), animano le pagine di gossip e style dei magazine per la upper class, sono degli eroi per i bambini di tutte le estrazioni sociali e le loro gesta diventano leva politica (confronto India – Pakistan) e strumento di esercizio del potere, con connivenze tra ambienti sportivi, della malavità e della politica.
Al calcio in India manca ancora il coefficiente di immedesimazione: finché i miti del pallone saranno sempre miti importati dall’estero, l’indiano medio preferirà abbandonarsi alla ricreazione ludico-spettacolare di casa sua, con protagonisti nati e cresciuti in India, che parlano hindi e dei quali potrà sognare di emulare la vita da jet-set.
Per questi motivi, a cui si aggiunge un disinteresse totale delle istituzioni politiche e sportive indiane per quanto riguarda la destinazione di fondi per la realizzazione di strutture per il calcio, vivai e scouting di giovani speranze (cose che stanno facendo le società multinazionali come Barcellona, Manchester United e Real Madrid, tra le altre), il successo dell’innesto calcistico in India per chi scrive rimane un’eventualità abbastanza remota.
Un’India in preda all’euforia calcistica, nonostante le marchettate che ciclicamente invadono la stampa internazionale, sembra lontana a venire. E quando mai dovesse capitare, sapremo secondo quali schemi sia potuto succedere.
[Scritto per East online; foto credit: getty]