Per la festività più sentita del Bengala, Calcutta si trasforma nella Rio De Janeiro orientale: decine di milioni di visitatori immortalano il fantasioso allestimento dei tipici pandal, dai più tradizionali ai più eccentrici, per celebrare la vittoria della Dea, madre amorevole e guerriera spietata allo stesso tempo.
Nei cinque giorni di celebrazione della Durga Puja, Calcutta si illumina di un’atmosfera a metà fra il natalizio e il carnevalesco: luminarie mirabolanti, neon psichedelici, la corsa ai regali, la vasca nelle strade di quartiere per esibire il vestito nuovo e il meno sobrio possibile, la musica a tutto spiano, l’esaltazione di massa, e ovviamente, il pandal-hopping.
Il pandal-hopping è il passatempo preferito durante la festività dedicata al trionfo della dea Durga: imbellettati e aggonghindati a festa, si parte da casa e si rimbalza di pandal in pandal finché le ginocchia non cedono, per partecipare al vivace contest annuale che premierà quello più apprezzato dall’apposita giuria.
Cos’è un pandal? Potremmo definirlo una struttura templare mobile con scheletro in bambù, che ospita, nello spazio dedicato all’altare, il trittico – o meglio il quittrico – della sacra famiglia: Durga armata fino ai denti che sconfigge il cattivissimo demone Mahishasura cavalcando un leone, e tutta la sua progenie, Saraswati, dea della cultura che imbraccia un delizioso sitar, Lakshmi, dea dell’abbondanza, Ganesh dal volto di elefante e Kartikeya accompagnato da un pavone.
Le forme e le dimensioni del pandal sono a completa discrezione dell’estro artistico del quartiere (e dalla generosità dei suoi più o meno abbienti abitanti): si va da quelli più tradizionali, decorati con giunchi intrecciati e rivestiti in stuoie di paglia, a quelli più pretenziosi, che replicano le grandi architetture templari in terracotta o in marmo bianco esibendo virtuosi intagli nel polistirolo.
Dai più folkloristici ai più eccentrici esperimenti di architettura usa-e-getta, dai tetti di paglia a mo’ di capanna a quelli a punta dal sapore tailandese, dal pandal di latta stile Mago di Oz a quello naif dai colori piani e accesi, ogni isolato reinterpreta l’arrivo di Durga in un nuovo contesto, per sottintendere ludicamente alla sua perenne validità.
Di anno in anno, le icone delle divinità vengono rigorosamente forgiate in paglia e argilla dagli artigiani delle località Kumortuli e Putulpara, per poi essere immerse nell’ultimo giorno di Durga Puja, il giorno dell’addio, quando la Dea viene accompagnata al fiume affinché lo risalga fino alla sua sorgente, dove potrà ricongiungersi al divino consorte Shiva nella dimora coniugale, sulle vette del monte Kailash.
Madre, moglie, figlia e fierissima guerriera, questa è la peculiarità della Durga venerata nel Bengala, che condensa in un’unica figura gli archetipi dell’amazzone distruttrice e della fecondità generatrice (le due protagoniste del culto del femmineo nel subcontinente, che Wendy Doniger chiama “dee del dente” e “dee del seno”).
I suoi attributi nascono dalla sintesi inclusivista di divinità vediche, puraniche, folkloriche e tribali; la sua storia è radicata nella struttura sociale e familiare che sottintende al matrimonio bengalese: come le donne comuni, anche Durga risiede nella casa del coniuge, e ritorna a far visita in terra natia una volta all’anno, nei dieci giorni della Puja, portandosi appresso la prole di stirpe divina, per poi salutare amici, devoti e conterranei, e riprendere la strada verso l’Himalaya.
Se il culto della Madre ha radici antichissime e pre-arie, la celebrazione pomposa e roboante della Durga Puja ha una storia piuttosto recente, fatta di costruzioni coloniali e di reinterpretazioni patriottiche.
Quando il colonnello Clive uscì vittorioso dalla battaglia di Plassey (1757), il primo, irrevocabile passo verso la colonizzazione britannica dell’India, volle ringraziare simbolicamente l’Altissimo per avergli concesso tanta grazia; ma l’unica chiesa dei dintorni, St. Anne’s Church, era andata distrutta durante la battaglia e Clive, consultatosi con il suo alleato locale, Navakrishna Dev, finì per fare un’offerta rituale (una puja, appunto) ai piedi di Durga.
Nata come celebrazione domestica dei ricchi proprietari terrieri, che facevano a gara di prestigio e status symbol davanti agli occhi dei nuovi arrivati mercanti inglesi, la trasformazione della Durga Puja da rito privato a tormentone pubblico non ebbe luogo prima del 1910, quando un gruppetto di abitanti di Calcutta nord mise in piedi il primo pandal finanziato da sottoscrizioni di cittadini.
L’idea ebbe un incredibile successo: nel pieno del movimento nazionalista, Durga venne identificata con la madrepatria e con l’energia guerriera necessaria per scacciare i colonizzatori, e alla festività cominciarono ad affiancarsi performance dell’arte marziale del bastone e della spada.
Nel giro di trent’anni il “carnevale di Calcutta” divenne tradizione.
Col passare dei tempi, la Dea dalle dieci braccia non perde il suo ascendente sui devoti bengalesi: opulenza, consumismo e nuove specialità gastronomiche si affiancano alle consuetudini più datate, ai mantra del Devi Mahatmiya Purana e ai sacrifici di capre si accompagnano gli impianti stereo e le canzoni dei film di Bollywood, e alle sottoscrizioni volontarie dei cittadini si sostituiscono gli sponsor delle compagnie di telefonia mobile e gli ingombranti cartelloni pubblicitari delle marche di shampoo.
[Foto credit: Carola Lorea e Matteo Miavaldi]