Il rapporto annuale di Amnesty International sui diritti umani nel mondo mette in luce le voragini della società indiana, dove i poveri sono sempre più poveri e i deboli sono in balia degli espropri terrieri. E le operazioni anti terrorismo, spesso, finiscono per fare più danni dei terroristi stessi.
Anno nuovo, problemi vecchi. La sezione dedicata all’India del 50esimo rapporto di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel mondo è una lista di deja vù, un elenco di controversie che il governo indiano sembra non potere – o non volere – risolvere in tempi brevi.
“Il governo si è concentrato sulla crescita economica, a volte a discapito della protezione e promozione dei diritti umani dentro e fuori il Paese” si legge nelle prime righe, mentre alla fine dell’introduzione si spiega come “le autorità siano riluttanti nel pronunciarsi sulla crisi dei diritti umani sia nella regione che altrove”.
L’India, ricorda Amnesty, è rimasta in silenzio davanti alle violazioni in medioriente, Africa settentrionale, Birmania e Sri Lanka.
L’arricchimento del subcontinente indiano, dati alla mano, ha lasciato quasi intatte le sacche di povertà del Paese, divise tra zone rurali e gli slum delle megalopoli.
Secondo le stime ufficiali citate da Amnesty, i poveri in India coprono tra il 30 ed il 50 per cento della popolazione totale che, ricordiamo, si aggira intorno a 1,25 miliardi di persone.
Le azioni belliche dei maoisti e delle truppe statali che dovrebbero contrastarli mietono ogni anno centinaia di vittime, spesso civili ed adivasi, gli indigeni indiani.
Solo nello stato del Chhattisgarh dal 2005 ad oggi gli scontri tra le milizie naxalite e l’esercito del Salwa Judum hanno causato più di tremila morti, mentre nelle altre regioni del "corridoio rosso" continuano sistematicamente i sequestri – anche di italiani, recentemente – gli omicidi a sfondo politico e le torture che spesso subiscono gli attivisti che denunciano le violazioni dei diritti umani ad opera dei militari indiani.
Nel marzo 2011, ad esempio, 300 combattenti del Salwa Judum hanno attaccato una serie di villaggi nel Chhattisgarh, uccidendo tre persone, stuprando tre donne e bruciando 295 case.
Soni Sori, un’attivista che aveva denunciato il saccheggio delle truppe del Salwa Judum, nell’ottobre 2011 è stata incarcerata con l’accusa di collaborazionismo maoista, torturata e fatto oggetto di violenze sessuali da parte delle autorità dello stato.
Ancora oggi è in stato di detenzione presso un ospedale. Amnesty sostiene si tratti di un caso di prigionia di coscienza.
A proposito di tortura, vale la pena ricordare che l’India è tra la manciata di paesi delle Nazioni Unite a non aver ratificato la convenzione dell’Onu contro la tortura. Un club ristretto dove il gigante indiano è in compagnia di Bahamas, isole Comore, Repubblica Dominicana, Gambia, Guinea-Bissau, Nauru, Sao Tome e Principe e Sudan.
Sempre gli adivasi sono nel mirino delle espropriazioni terriere – una caratteristica che infelicemente accomuna l’India all’altro gigante asiatico, la Cina – a favore di multinazionali o industrie nazionali.
Le proteste pacifiche dei contadini espropriati vengono spesso represse con la violenza dalle autorità locali, E’ il caso delle proteste in Jharkhand dello scorso maggio, quando la polizia ha ucciso due manifestanti durante una marcia contro lo sfratto coatto di una parte della popolazione delle cittadine di Jamshedpur, Ranchi e Bokaro.
In totale, dice Amnesty, più di 100mila persone sono state costrette ad abbandonare le loro terre nelle tre località del Jharkhand.
Chi si impegna a difendere i diritti dei più deboli, in India, rischia di fare una brutta fine. Può capitare che lo stato sporga denuncia basandosi su accuse completamente inventate, come nel caso di due ambientalisti del Chhattisgarh lo scorso giugno.
Oppure si finisce direttamente nel mirino dei sicari affiliati alle compagnie minerarie illegali, come per Shehla Masood, attivista ammazzata in pieno giorno nella a Bophal, in Madya Pradesh, dopo aver denunciato le violazioni ambientali di alcune miniere illegali dello stato.
Nella sezione “impunità”, merita un capitoletto a parte la situazione nel Jammu e Kashmir, stato martoriato da un conflitto infinito tra esercito indiano e nuclei separatisti supportati dal Pakistan che si protrae quasi ininterrottamente dal 1947.
Solo nel 2010, le forze dell’ordine dispiegate nel territorio hanno ucciso oltre un centinaio di giovani manifestanti. Per contrastare il terrorismo separatista, dal 1989 ad oggi gli omicidi illegali, le persone torturate e le sparizioni si contano nell’ordine delle migliaia.
I provvedimenti di Delhi contro lo strapotere illegale dei militari sfiorano lo zero.
Lo scorso settembre una commissione statale per i diritti umani ha scoperto una fossa comune contenente più di 2700 cadaveri non identificati. La polizia locale si è affrettata a spiegare che quei corpi erano semplicemente “militanti non identificati”, ma la commissione è stata in grado di risalire alle identità di 574 cadaveri: erano tutte abitanti locali misteriosamente spariti dopo esser stati presi in consegna dalle autorità.
La richiesta di procedere con l’identificazione del Dna per i cadaveri restanti, ad oggi, non ha ancora ricevuto una risposta da parte degli uffici competenti.
Ma arriva il lieto fine: nonostante almeno 110 persone siano state sentenziate con la pena di morte, per il settimo anno consecutivo l’India non ha eseguito nessuna pena capitale.
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