Il 3 novembre del 2015 la casa editrice Allen Lane ha dato alle stampe Rebooting India: Realizing a Billion Aspirations, saggio sull’idilliaco futuro digitale che attendeva il secondo Paese più popoloso al mondo. Tra i due autori figura Nandan Nilekani, già fondatore del gigante dell’It Infosys e appuntato nel 2009 dal governo Singh padre del progetto Aadhaar, il più grande database di dati biometrici del pianeta Terra, attualmente gestito dal governo indiano.
Prefigurando di qualche anno temi ora parte integrante del discorso internazionale, Nilekani aveva incluso nel libro una frase perfetta per riassumere le traiettorie delle recenti politiche indiane in tema di sovranità digitale e gestione dei big data: «L’India diventerà un Paese ricco di dati prima che economicamente ricco». Intuizione che l’attuale governo in carica, col primo ministro Narendra Modi tra i più ferventi sostenitori, ha adottato come stella polare da seguire nella sfida subcontinentale al progresso, giocata tutta su proprietà, gestione e ubicazione fisica dei metadata.
Una prima iniziativa in questo senso, ripulita dalle baracconate securitarie con cui è stata promossa, è stata la celebre demonetizzazione del 2016, quando Modi, in diretta televisiva, annunciò la messa fuori corso dell’86% delle banconote in circolazione nel Paese. Misura che, fallendo negli intenti di combattere l’evasione fiscale e la diffusione di cartamoneta contraffatta, ha spinto una buona fetta della classe medio-alta – che traina i consumi – verso la digitalizzazione delle proprie transazioni monetarie. Affrontando una crisi di credit crunch inedita nel Paese, a milioni hanno iniziato a comprare beni utilizzando la piattaforma Unified Payments Interface (Upi, altra creatura di Nilekani), cui si appoggiano tutti i servizi di «instant payment» attivi in India. Alla comodità del cashless – tutta da provare in un mercato informale come quello indiano – si aggiungeva, per la gioia dell’esecutivo, l’imprescindibile tracciabilità dei consumi, con conseguente impronta digitale incamerata nei server governativi di Upi.
Questo patrimonio digitale, intersecandosi col progetto Aadhaar, ha permesso a New Delhi la creazione di un database sterminato, formato dall’incrocio di dati raccolti da diversi servizi mandati tutti a confluire, digitalmente, in un unica cassaforte telematica: alle tracce telematiche lasciate dal codice identificativo unico Aadhaar, accoppiato oggi a oltre il 99% di 1,3 miliardi di cittadini indiani, per virtualmente ogni servizio fornito nel Paese – dal conto corrente bancario alle utenze elettriche, dalla distribuzione di bombole del gas all’iscrizione a scuola – si aggiungono i dati relativi all’acquisto di beni e servizi pagati in digitale nell’ambiente Upi. E a cascata, ognuno degli erogatori di servizi terzi che richiedono, come prova dell’identità dell’utente, il codice Aadhaar – per aprire un’utenza telefonica, ad esempio – dispone di un proprio database in cui i dati privati del cliente sono accoppiati al proprio codice Aadhaar, con rischi enormi in termini di violazione della privacy e monetizzazione dei dati da parte di aziende private.
In linea con l’approccio accentratore e monopolistico alla gestione dei big data adottato dal governo cinese, anche l’India ha capito che nell’immediato futuro la gestione esclusiva dei dati dei propri cittadini rappresenta un asset inestimabile per le relazioni commerciali di domani, con compagnie straniere interessate più che mai ai dettagli di centinaia di milioni di consumatori. All’inizio di settembre una bozza di proposta di legge fatta circolare tra le compagnie internazionali del settore dell’e-commerce attive in India conteneva l’obbligo di mantenere i dati dei consumatori indiani in server fisicamente all’interno del territorio della Repubblica indiana, interrompendone il trasferimento automatico in vigore fino a oggi. Una misura che favorirà player locali come Paytm, che già dispone di server in loco, ostacolando invece l’ascesa di giganti come Amazon, che fino ad oggi hanno largamente approfittato della raccolta libera di metadata senza ostruzioni ai confini nazionali. Allo stesso modo, secondo quanto riportato dal Financial Times, la Reserve Bank of India ha già annunciato lo stop al trasferimento di dati generati dall’utilizzo di carte di credito erogate da fornitori stranieri, misura che entrerà in vigore nel mese di ottobre.
Il timore di rappresaglie uguali e contrarie dagli Stati uniti già circola tra diversi analisti indiani che nel ripiegamento localista dei dati digitali intravedono una minaccia protezionistica destinata a colpire duramente l’intero settore dell’e-commerce globale. Una ricchezza di dati che difficilmente coinvolgerà concretamente i consumatori.
[Pubblicato su il manifesto]