Le cinque tazzine di chai erano vuote, di nuovo, e a sua madre bastò inclinare leggermente il capo perché Rajni si alzasse, riempisse il vassoio col servizio buono e tornasse in cucina, di nuovo. L’agente Ram Pratap Singh, contenuto a fatica nella divisa kakhi d’ordinanza, aveva allora sorriso a suo figlio Subodh, lasciando intravedere le labbra sotto i baffi scuri: considerando la posizione decisamente bassa che i figli dei poliziotti occupano nella graduatoria non scritta dei matrimoni combinati in Uttar Pradesh – talvolta superati dai figli degli usurai, se non altro per l’accesso al credito –Rajni sarebbe stata una moglie più che soddisfacente, pensò l’agente Singh.
Rajni, mentre sollevava il pentolino dalla fiamma facendo sfumare la prima ebollizione del tè, sentiva due paure salirle dal ventre.
La prima riguardava il sesso: come sopportare il dolore, come soddisfare le naturali esigenze del marito, quanto sangue avrebbe perso «la prima volta». Con le sue amiche del villaggio, non trovando alcuna indicazione in tal senso nell’educazione sessuale approssimativa offerta dal cinema di Bollywood, aveva convenuto che la cosa migliore, nel dubbio, fosse restare quanto più possibile ferme. Al resto, come lasciavano intendere i film, ci avrebbe pensato lui.
La seconda, arrivata alla bocca dello stomaco dopo aver apprezzato da vicino la stazza dell’agente Singh, era dovuta a un velocissimo, e angosciante, calcolo a spanne: entro quanti anni il fisico asciutto di Subodh avrebbe lasciato il passo a quel pallone areostatico appoggiato tra il petto e la cintura dell’agente Singh, ora seduto in soggiorno a scofanarsi il terzo giro di biscotti al cumino? Non tanti, pensava Rajni.
Ne erano passati invece più di 20 e ora, seduta nel loro salotto di Noida, alle porte di New Delhi, Rajni scorre la rubrica dello smartphone fino alla voce «Meri Jaan», vita mia, alias Subodh Kumar Singh, ispettore di polizia presso il distretto di Bulandshahr, Uttar Pradesh. Dalla foto del profilo, a quarantacinque anni suonati, appare ancora in forma. Dal padre ha ereditato il posto in polizia e, come da tradizione, il baffo, ma niente più.
L’agente Ram Pratap Singh aveva attraversato trent’anni di servizio rubacchiando lo stretto necessario per non sfigurare davanti ai colleghi e arrestando lo stretto necessario per non sfigurare davanti al governo di turno. E, soprattutto, si era sempre tenuto alla larga dalle continue faide tra hindu e musulmani. L’agente Singh sapeva di non essere particolarmente intelligente, ma sapeva anche che, in Uttar Pradesh, solo uno stupido poteva pensare di poter fare davvero il proprio lavoro di poliziotto con un morto musulmano e un assassino hindu tra le mani. In quei casi, il governo decideva l’esito delle indagini, e la polizia doveva fare ciò per cui è pagata: eseguire gli ordini.
Così facendo, Ram Pratap Singh era morto felice passati i cinquant’anni. Di diabete, in casa, ingozzandosi di jelebi fritti fino all’ultimo giorno.
Subodh la pensava diversamente. Anche per questo, sin da quando «la prima volta» si era fermato vedendola piangere, rimandando il concepimento di Abhishek alla «prima volta, secondo tentativo», Rajni lo amava.
Avevano cresciuto due figli con la testa a posto: rispettosi, educati, diligenti, entrambi adorati dagli insegnanti. Erano riusciti a trasferirsi dal villaggio a Noida, quasi in città, anche se negli ultimi tre anni le indagini sul caso Akhlaq – un musulmano linciato dalla folla perché accusato di nascondere in casa carne di mucca – avevano costretto Subodh a rimanere al villaggio cinque giorni a settimana.
Quando le analisi dei reperti consegnati alla scientifica avevano provato che si trattava di carne di montone e dall’alto era arrivato l’ordine di insabbiare, Subodh aveva invece fatto arrestare una mezza dozzina di sospetti ultrahindu.
Da allora erano iniziate le telefonate minatorie, le visite dei piccoli potentati del villaggio in caserma, le scatole di dolci lasciate sulla scrivania con le mazzette nascoste sotto il coperchio, sempre recapitate gentilmente al mittente. Subodh, che dal padre non aveva ereditato nemmeno il dono della menzogna, cercava di rassicurarla ogni sabato notte, quando in camera da letto potevano parlare liberamente sottovoce. Piangere, a volte. Altre, in silenzio, fare ancora l’amore.
Lunedì mattina, come promesso, Subodh l’aveva chiamata prima del solito, rassicurandola che sì, sarebbe stato attento e no, non c’era da preoccuparsi dei riot degli ultrahindu nel villaggio. Le aveva detto che doveva smetterla di dare retta ai telegiornali. Ma Rajni, come spesso capitava tra loro, la pensava diversamente.
Rajni alza gli occhi dallo smartphone, seguendo la voce del televisore che da giorni è sintonizzato sul canale delle news 24/7. La giornalista riporta le ultime novità circa l’omicidio dell’ispettore Subodh Kumar Singh, una delle due vittime dei riot terminati lunedì scorso. Il corpo senza vita, freddato da due colpi di pistola, era stato trovato in un veicolo della polizia distrettuale abbandonato in un campo poco lontano dal villaggio. Ora gli inquirenti sono a caccia di due prove che possano aiutare a risalire ai responsabili del delitto: la pistola d’ordinanza di Singh e il suo smartphone, probabilmente rubati dagli assassini.
Rajni, seguendo il consiglio di Subodh, ha smesso di dare retta ai telegiornali. Menu. Chiamate. Chiamate recenti. «Meri Jaan» (152): chiama.
[Pubblicato su il manifesto]