Ieri mattina Yakub Memon è stato impiccato dai boia del carcere di Nagpur, Maharashtra, colpevole di complicità nell’attentato dei Bombay bombings del 1993. Vane le numerose richieste di grazia e revisione di un processo più politico che legale, influenzato dal clima d’odio anti-musulmano fomentato dalla destra ultranazionalista indiana.Yakub Memon, indiano di religione musulmana, è stato impiccato ieri mattina, all’alba del suo 54esimo compleanno, dai boia del carcere di Nagpur, in Maharashtra. «Giustizia è stata fatta» ha commentato Mukul Rohatgi, capo dell’accusa di Stato nominato dall’amministrazione Modi, «al colpevole è stato dato pieno accesso al sistema giuridico, è stato condannato per un crimine efferato»: riferimento alle petizioni indirizzate alle massime cariche istituzionali – nell’ultima settimana, tre alla Corte suprema, una al governatore del Maharashtra, una al presidente della Repubblica – in cerca di una grazia «in extremis». Tutte respinte, l’ultima a poche ore dall’impiccagione.
I reati contestati a Memon sono cospirazione, detenzione illegale di esplosivi e armi da fuoco, concorso logistico e finanziario nell’attentato più sanguinoso della storia dell’India indipendente. Nel marzo del 1993 tredici bombe esplosero nella città di Mumbai, uccidendo più di 270 persone. Un attentato che, pochi mesi dopo, le autorità indiane avrebbero potuto ricondurre al terrorismo pakistano in combutta con la mafia locale di Bombay, legata all’estremismo musulmano di Islamabad e a (una parte?) dell’Inter-Services Intelligence (Isi), i servizi pakistani. I due responsabili dei «Bombay bombings» sono Dawood Ibrahim, capo della mafia di Mumbai, e «Tiger» Memon, malavitoso di Mumbai e fratello di Yakub, entrambi protetti a Karachi dagli uomini dell’Isi. Come lo sappiamo? Ce l’ha detto Yakub Memon.
La famiglia Memon, avvertita da Tiger dell’imminente catena di esplosioni, qualche giorno prima dell’attentato parte per il Pakistan, via Dubai, accettando la protezione dell’Isi dalla rappresaglia delle autorità indiane. Yakub Memon, pentito della propria scelta, decide di tornare in India per collaborare con la giustizia e tentare di togliere dal proprio nome lo stigma del «terrorista». Secondo i memoriali dal carcere di Yakub, il proprio avvocato e Tiger gli sconsigliarono il ritorno in patria: «Pensi di tornare nella terra di Gandhi, ma ti tratteranno come un terrorista» lo ammonisce il fratello.
Yakub, laurea breve in economia e commercio e commercialista praticante, è un metodico: riempie una valigetta di dati, nomi, indirizzi e informazioni da consegnare alle autorità in cambio di un accordo per una riduzione di pena per lui e parte della sua famiglia, e si consegna alla polizia del Nepal. I nepalesi, informalmente, lo trasferiscono in Bihar e lo consegnano agli uomini del Research and Analysis Wing (Raw, la Cia indiana). All’apparenza tutto sembra andare secondo i piani di Yakub, che viene arrestato, mentre altri nove membri della sua famiglia, compresa la figlia appena nata, vengono aiutati a raggiungere l’India dai servizi indiani.
Grazie alle informazioni di Yakub, le autorità indiane sono in grado di delineare il percorso di uomini, esplosivi e soldi che dal Pakistan, attraverso Dubai, avrebbero permesso i «Bombay bombings».
Yakub Memon entra in carcere nell’agosto del 1994 da pentito, collaborando con le autorità che fuori lo stanno processando davanti a una corte anti-terrorismo. Il 27 luglio del 2007, dopo tredici anni, viene condannato per «cospirazione» alla pena di morte, assieme ad altri nove membri della sua famiglia. La pena capitale sarà commutata in ergastolo per tutti, compresi chi aveva piazzato le bombe a Bombay, tranne che per lui, sempre professatosi innocente. Secondo la difesa, i reati imputati a Memon sarebbero «provati» solo grazie alle confessioni di altri pentiti. Le voci a difesa di Memon, negli anni, si levano alla spicciolata, rilevando l’assurdità di impiccare un «complice» che si era consegnato volontariamente per contribuire alle indagini.
Ma il processo, fuori dal tribunale, è di carattere politico. Ambienti della destra nazionalista indiana vogliono il sangue musulmano di un Memon per vendicare i morti di Mumbai, città controllata dal Bharatiya Janata Party (Bjp) assieme alla formazione paramilitare ultrainduista del Shiv Sena (letteralmente, l’esercito di Shivaji, re guerriero marathi del diciassettesimo secolo).
In seguito a una campagna d’odio anti-musulmano condotta dal Bjp nel 1992 e culminata nella distruzione della moschea Babri ad Ayodhya, in Uttar Pradesh (a mani nude, da una folla di ultranazionalisti), focolai di protesta da parte della comunità islamica locale si accesero in tutto il paese. Anche a Bombay, dove le squadracce del Shiv Sena, col benestare delle autorità locali, tra il dicembre del 1992 e il gennaio del 1993 rastrellarono i quartieri islamici della città nei pogrom passati alla Storia come i «Bombay riots»: 900 morti in due mesi, di cui oltre 700 musulmani.
Due mesi dopo, le bombe di Dawood Ibrahim e Tiger Memon sarebbero state la sanguinosa rappresaglia dei crimini dell’«hindutva», l’ideologia suprematista hindu del Shiv Sena.
I giudici indiani, per i «Bombay riots», avrebbero condannato tre membri del Shiv Sena a un anno di carcere per «istigazione all’odio». Yakub Memon, dopo 21 anni di carcere, è stato ucciso ieri dalla giustizia indiana.
Al di là dell’equazione «applicazione della pena di morte = giustizia» – che qui ci permettiamo di dare come per assodata barbarità, da qualsiasi angolazione la si prenda – la vicenda di Yakub Memon è una sconfitta per lo stato di diritto, per l’autorevolezza delle istituzioni e per l’indipendenza del sistema giuridico dalla «vox populi» indiana. Una catastrofe chiamata giustizia.
[Pubblicato in forma ridotta su il manifesto; foto credit: thequint.com]