“La sicurezza prima di tutto”, recita uno slogan governativo cinese, che sembra trovare riscontro nel costante calo del numero delle morti sul lavoro (sono 31.6% in meno rispetto all’anno precedente). Ma la “Accident map” di China Labour Bulletin – ong che fornisce anche mappe dettagliate e in tempo reale sugli scioperi nel paese asiatico – riporta 361 incidenti sul lavoro dall’inizio dell’anno. Gli ultimi casi riguardano il settore minerario e quello delle costruzioni, entrambi fonte di preoccupazione per Xi Jinping, che nel 2018 aveva istituito un ministero apposito per la gestione delle emergenze.
MA GLI SFORZI del governo per migliorare la sicurezza sul lavoro, puntualizzano i critici, si limitano alla sistematica chiusura dei siti produttivi e al rafforzamento dei controlli. Un classico approccio top-down, adottato anche dalla nuova legge sulla sicurezza entrata in vigore il primo settembre. La terza revisione – che segue quelle del 2009 e del 2014 – prevede per le aziende inadempienti un aumento della sanzione minima da 200.000 a 300.000 yuan, e da 20 milioni di yuan a 100 milioni per il limite massimo.
Più soldi e subito, perché pare che le aziende in cui si rileveranno violazioni verranno multate nell’immediato, in concomitanza con l’emanazione dell’ordine di rettifica. La pena pecuniaria, ha comunicato ai media nazionali Guo Linmao, membro della commissione affari legislativi del Comitato permanente, potrà essere imposta su base giornaliera fino alla effettiva risoluzione da parte del datore di lavoro.
Ma sarà anche necessario stabilire un “sistema di gestione e controllo per gradi”, che richiama alla partecipazione proattiva di vari attori, sindacati compresi. I membri hanno il diritto di partecipare alle indagini sugli incidenti sul lavoro e devono essere consultati per “stabilire e implementare un sistema di responsabilità per la sicurezza” per tutti i lavoratori, inclusi quelli dei settori “emergenti” dell’economia delle piattaforme e delle agenzie del lavoro.
Gli impiegati nella gig economy – la cosiddetta “economia dei lavoretti” precari e flessibili – nel 2018 erano già stati coinvolti in una massiccia campagna di reclutamento da parte della Federazione nazionale del sindacato cinese (ACFTU), l’unica rappresentanza legale in Cina. E qualche giorno fa, sulla scia dei recenti sforzi del partito volti a regolare le multinazionali del paese, la Federazione municipale di Pechino ha introdotto delle linee guida per incoraggiare la sindacalizzazione dei lavoratori gig e fornire loro anche controlli sanitari periodici e servizi di assistenza all’infanzia.
CI SI CHIEDE, in generale, se i funzionari accetteranno di svolgere un ruolo più attivo visti i precedenti non proprio incoraggianti. Il ruolo della Federazione nazionale del sindacato cinese è perlopiù quello di garantire relazioni di lavoro armoniose, e i report di attivisti e ong raccontano di personale inadempiente in caso di infortuni sul lavoro ed evasivo di fronte a richieste di chiarimento, pronto a scaricare la responsabilità sui governi locali.
Ma per comprendere quale sarà la direzione di Pechino è utile considerare i precedenti interventi a favore dei gig workers da parte dei sindacati municipali. Qualche settimana fa, ad esempio, la federazione della città sud-orientale di Xiamen si è indaffarata a chiedere alle aziende un vero e proprio “promemoria per la stanchezza” che arrivi nella app dei rider del food delivery per ricordare loro di fare una pausa ogni quattro ore. Una presa di posizione debole rispetto a quanto successo a Shanghai: dopo che nel 2017 un quadro era stato inviato sotto copertura per documentare “le condizioni di lavoro precarie e la mancanza di protezione sociale” nel settore del food delivery, a novembre dello stesso anno era stato istituito il primo sindacato dedicato ai rider – che conta ad oggi 20.000 membri. In breve tempo, i quadri erano stati capaci di fornire ai lavoratori una serie di servizi gratuiti, tra cui l’assistenza legale.
Di Vittoria Mazzieri
[Pubblicato su il manifesto]