Una settimana fa, Mai Nuam Za Thiang, 19 anni, è morta dissanguata dopo essere stata ferita dai soldati a Kalay, nel Sagaing. I suoi parenti hanno raccontato che i militari li hanno costretti a cremarla immediatamente, sostenendo che fosse affetta da Covid. Il magazine birmano Myanmar-Now ha rivelato una storia che spiega fino a che punto si sta spingendo il regime militare: nascondere il Covid – in forte ascesa – assieme alle proteste. Farne un fascio, bruciarlo e occultarlo.
Secondo gli ultimi dati diffusi dall’Onu sono circa 350mila gli sfollati del conflitto sociale e militare in Myanmar: dal 1 febbraio sono 177mila nel Sudest e nello Shan meridionale (103 mila nel solo Stato Kayah da fine maggio) cui se ne aggiungono quasi 18 mila sempre da altre aree dello Shan, sfollati sin da gennaio. Altri 20mila sono dello Stato Chin, del Magway e di altre regioni dove infuriano i combattimenti da maggio.
Oltre 11mila sono sfollati interni dello Stato Kachin (scontri armati cominciati in marzo). L’Humanitarian Response Plan dell’Onu prevederebbe un esborso di almeno 270 milioni di dollari ma resta finanziato solo per il 21%. Difficile nascondersi che aiutare gli sfollati è difficile visto che già lo era ai tempo della fragile democrazia birmana quando comunque Tatmadaw, l’esercito fedele alla giunta, controllava o impediva l’accesso a certe zone dell’assistenza umanitaria. Essenziale ora in una guerra iniziata ormai 5 mesi fa e che, oltre alla resistenza di gruppi in “abiti civili” (le cosiddette People’s Defence Force), vede impegnati eserciti e milizie regionali armate che non si sono piegate al golpe di febbraio.
Il governo ombra di Aung San Suu Kyi (National Unity Government-Nug) chiede adesso “un’assistenza umanitaria ampia e rapida per salvare la vita di chi vive in in Myanmar… Il recente colpo di stato militare e le atrocità in corso commesse dalla giunta – dice il documento-appello – hanno gettato ancora una volta il nostro popolo in una complessa emergenza politica e umanitaria” con 3,4 milioni di persone senza cibo, 883 vittime e oltre 5mila detenuti politici. Ma c’è un ovvio problema politico. Bypassare la giunta? I problemi stanno a monte delle evidenti necessità di cibo, medicine, assistenza.
«L’appello ci riporta all’urgenza di reagire di fronte a quanto sta succedendo in Myanmar. Il golpe di febbraio si può ormai dire che a livello internazionale sia stato “digerito” e cancellato. Ma la resistenza interna continua e un governo illegittimo, impegnato soltanto a garantirsi l’impunità e controllare il Paese, non può fare fronte all’emergenza umanitaria, aggravata dalla pandemia», commenta Alfredo Somoza presidente dell’Ong Icei: «E’ molto difficile per la società civile immaginare come si possa rispondere a questo appello che dovrebbe spronare la comunità internazionale a chiedere seriamente conto ai militari di quanto sta avvenendo. Senza l’attenzione dell’Onu, o almeno dell’UE, il dramma birmano rischia di assumere dimensioni gigantesche. Nel silenzio e l’ipocrisia di chi, quando dichiara di volersi impegnare contro l’autoritarismo, lo fa in modo selettivo per non urtare ‘sensibilità’».
La comunità internazionale in effetti si muove lentamente e non fa molto. L’Assemblea generale dell’Onu il 18 giugno ha votato l’embargo delle armi alla giunta (119 a favore, 36 astenuti tra cui Cina e Russia e il voto contrario della Bielorussia) ma se non si muovono Consiglio di sicurezza e singoli Stati si arriva a poco. Ue e Usa hanno congelato i conti dei militari che però ne hanno diversi a Singapore. E, per quanto si sa, le cooperazioni bilaterali intendono sbaraccare. Anche nell’agenda europea i diritti umani non stanno sempre al primo posto.
Di Emanuele Giordana
[Pubblicato su il manifesto]