«Una vittoria per l’India, una vittoria per la democrazia». Così il primo ministro indiano Narendra Modi, davanti a una folla di sostenitori che ha riempito il piazzale antistante il quartier generale del Bharatiya Janata Party (Bjp) a New Delhi, ha riassunto la strepitosa e sorprendente performance elettorale del suo partito.
Quando il 23 maggio lo spoglio elettronico dei voti ha concluso di fatto le più grandi elezioni democratiche della storia dell’umanità – 900 milioni di aventi diritto, affluenza oltre il 60 per cento – la sicurezza matematica di un secondo mandato Modi ha assunto le dimensioni di un traguardo storico per il Paese. La coalizione conservatrice e nazionalista guidata dal BJP è riuscita a ottenere più di 300 seggi dei 542 disponibili, una maggioranza schiacciante che fa di Modi il primo leader della destra indiana a ricoprire la carica di primo ministro per due mandati consecutivi e consolida, di fatto, il predominio assoluto del Bjp in virtualmente tutta la Repubblica indiana.
Mentre le previsioni, nelle ultime settimane, davano il governo uscente in relativa difficoltà, destinato a peggiorare il risultato eccezionale del 2014 con 336 seggi vinti dalla coalizione National Democratic Alliance (Nda), l’India ha ancora una volta sorpreso tutti gli osservatori, mostrando gli effetti di una seconda «Modi Wave» abbattutasi con ancora più impeto sulle flebili speranze elettorali delle opposizioni.
LE OPPOSIZIONI, in primis l’Indian National Congress di Rahul Gandhi, sono state ancora una volta a guardare, incapaci di contrastare una narrazione dell’India del domani che inquieta i progressisti ma, dati alla mano, galvanizza le masse.
Gli indiani hanno confermato la propria preferenza per un leader carismatico e autoritario come in India non se ne vedevano da decenni; un «uomo solo al potere» capace di stregare ancora 1,3 miliardi di persone nonostante l’oggettività di un mandato decisamente sotto le aspettative economiche, altissime, che lo stesso Modi aveva incoraggiato con la sua campagna di cinque anni fa, tutta progresso e sviluppo per tutti.
Quest’anno, a fronte di dati della crescita del Pil quantomeno discutibili, disoccupazione in aumento, esportazioni e investimenti diretti dall’estero in netto calo, la macchina della propaganda modiana ha spinto su sicurezza nazionale, machismo militare contro il vicino Pakistan e, specie a livello locale e non in inglese, sullo scontro comunitario tra hindu e musulmani. In una parola: «hindutva», l’ideologia suprematista hindu che ispira la spina dorsale ideologica del Bjp, l’organizzazione ultrahindu Rashtriya Swayamsevak Sangh.
UN AZZARDO INDEGNO, secondo intellettuali, giornalisti e progressisti; una ricetta vincente secondo centinaia di milioni di elettori, che quest’anno hanno votato Modi e il Bjp non «nonostante» l’ideologia, ma proprio «per» l’ideologia che il partito e i suoi esponenti incarnano. Se nel 2014 l’«hindutva» era stata nascosta dietro alla retorica del progresso, quest’anno è stata al centro della campagna elettorale, e ha dato frutti fino a qualche anno fa impensabili nell’India pluralista e democratica che il mondo aveva conosciuto.
Quell’India è cambiata e continuerà a cambiare col rischio, parafrasando il politologo francese esperto di India Christophe Jaffrelot, di diventare una «democrazia etnica» sul modello israeliano: un paese dove lo spazio per le minoranze etniche e religiose (oltre 180 milioni di musulmani) andrà drammaticamente restringendosi.
[Pubblicato su il manifesto]