«Sia la storia, sia la realtà, ci raccontano che solo il socialismo può salvare la Cina. Solo il socialismo con caratteristiche cinesi può portare allo sviluppo della Cina. Questa è la conclusione della storia e quanto ha deciso il popolo».
Si tratta delle parole pronunciate da Xi Jinping di fronte al Comitato centrale del partito comunista al suo completo nel 2013 e pubblicate ieri in Cina – in mandarino – dalla rivista teorica del Pcc, Qiushi («Cercare la verità»).
Un lungo discorso nel quale Xi Jinping ha ripercorso la storia della Repubblica popolare cinese dal 1949 e sottolineato i momenti salienti, i progressi, la capacità da parte del «socialismo con caratteristiche cinesi» di rinnovarsi e i rischi attuali (dovuti principalmente ai «modelli occidentali»).
Il testo è un compendio del modus operandi e del pensiero di Xi Jinping, nel quale – pur essendo criticata la rivoluzione culturale (messa tra gli errori, ma attraverso una citazione di Deng Xiaoping) – viene citato più spesso Mao di Deng (sette volte il primo, solo quattro il secondo) e sottolineata più volte la necessità di essere fedeli al partito e al «socialismo con caratteristiche cinesi» per conservare e migliorare i risultati raggiunti.
È un discorso in cui si trovano le caratteristiche dell’attuale presidenza: sotto la patina della retorica che la propaganda ha costruito intorno a Xi – stracolma di citazioni «classiche», di «sogni» e di riferimenti immaginifici – cova una volontà ferrea a mantenere il partito comunista al centro della vita sociale e politica del paese, negando ogni pericolosa «deviazione» e chiaramente contrapposto al capitalismo occidentale.
Una tendenza che si è tradotta in questi sei anni di presidenza in una continua corsa a bloccare ogni tentativo di mettere in discussione l’autorità del Pcc (e di conseguenza del suo numero uno). Non a caso, in uno dei passaggi del discorso, Xi Jinping è stato piuttosto chiaro: chi critica la rivoluzione comunista vuole «rovesciare la leadership del partito e il sistema socialista cinese».
E come spesso accade ai leader cinesi, il riferimento più immediato è a quanto accaduto all’Unione sovietica e all’Europa orientale. Perché è caduta, chiede Xi? Perché «ha rinnegato Lenin, ha rinnegato Stalin, ha rinnegato il ruolo del partito comunista».
Non è un caso che la rivista più importante del partito comunista abbia «rilasciato» le parole di Xi dette nel 2013 proprio in questi giorni: siamo infatti un momento delicato, nel quale l’economia rallenta, la classe media comincia a soffrire inflazione e la necessità di adeguarsi alla «nuova normalità», con lo scontro sui dazi con gli Usa ancora aperto. Ma soprattutto siamo in procinto di momenti «sensibili» per i quali la leadership cinese sembra avere preso la rincorsa: quest’anno a giugno ricorrono i trent’anni dai fatti di Tienanmen e il Pcc ha sempre molto timore delle ricorrenze.
Ma non solo, perché l’attuale fase cinese si gonfia di altri elementi: Xi Jinping ha sempre riposto grande attenzione – pretendendola – alla fedeltà al partito da parte dei funzionari. Xi, fin dall’inizio del suo mandato, ha deciso di stringere le maglie in ogni ambito possibile: con la campagna anti-corruzione – oltre ad avere eliminato numerosi potenziali avversari politici – ha messo in allerta tutti i funzionari abituati a regali e hongbao (le buste rosse contenenti soldi, tipico regalo del capodanno cinese ma anche simbolo delle mazzette) ripulendo così l’immagine del partito agli occhi di una popolazione sfiduciata dai tanti abusi di potere da parte dei dirigenti; con il controllo dei media e della rete ha messo sotto assedio ogni opinione contraria a quella del partito (e a questo proposito ci sono ormai numerose start-up cinesi specializzate nell’identificare materiale da censurare e in grado di utilizzare algoritmi capaci di interpretare anche slang e immagini satiriche).
Ugualmente Xi ha chiuso ogni spazio di dibattito o di opinioni critiche nei confronti del suo operato nelle università cinesi, dove il clima si è fatto pesante, soprattutto dopo l’allontanamento (e la probabile indagine) su Xu Zhangrun, uno dei professori della Tsinghua (una delle università più prestigiose della Cina, nella quale ha studiato lo stesso Xi Jinping).
Xu Zhangrun di recente aveva scritto diversi articoli di critica all’azione di Xi. La sua cacciata rappresenta un segnale che va in due direzioni: evidentemente l’ipercontrollo e la negazione di ogni forma di critica comincia a non essere digerito soprattutto nei settori intellettuali più «liberali», ma dall’altro indica una immediata censura di ogni voce fuori dal coro.
Con la riforma della costituzione dell’anno scorso, poi, oltre ad avere eliminato il limite al doppio mandato, Xi Jinping ha creato la «commissione nazionale di supervisione», una sorta di nuovo organo istituzionale che fa capo proprio al numero uno. Segnali e azioni che si potevano già riscontrare nel discorso di Xi del 2013, quando specificava: «Dobbiamo avere una forte determinazione strategica, resistere risolutamente a tutte le tipologie di idee non corrette che abbandonano il socialismo e correggerle. La cosa più importante è concentrarci sui nostri affari, rafforzare costantemente la nostra forza nazionale globale, migliorare costantemente la vita delle nostre persone, costruire il socialismo per dimostrarne la superiorità sul capitalismo».
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.