In Corea del Sud si lavorerà di meno

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Il parlamento vara la riduzione dell’orario di lavoro: da 68 a 52 ore alla settimana.


L’Assemblea nazionale sudcoreana (il parlamento di Seul) ha approvato con una maggioranza schiacciante — 151 a favore, 11 contrari e 32 astenuti — la proposta di ridurre le ore lavorative settimanali da 68 a 52. Ovvero 40 ore regolari più 12 ore di straordinari. Per i diciottenni, il limite sarà di 35 ore alla settimana rispetto alle attuali 40. Il lavoro nel weekend sarà ricompensato con una paga aggiuntiva tra il 50 e il 100%, a seconda delle ore.

Le nuove regole verranno introdotte nel prossimo luglio nelle aziende con oltre 300 dipendenti mentre quelle con un numero compreso tra i 50 e i 299 impiegati avranno tempo fino al 2020. I datori di lavoro che non si atterranno a quanto stabilito dalla riforma andranno incontro a pene detentive inferiori ai due anni e a multe sotto i 10 milioni di won (9mila dollari). Solo cinque settori — tra cui sanità e trasporti — saranno esonerati dalle nuove norme, rispetto ai 26 del vecchio sistema.

La svolta è l’esito di una annosa battaglia tra sindacati, legislatori e mondo del business. Il vero vincitore è il presidente Moon Jae-in, eletto lo scorso anno sulla base di un’agenda elettorale ricca di proposte mirate a innalzare la qualità della vita. Tra i primi sviluppi concreti va ricordato l’aumento dello stipendio del 16% approvato nel mese di luglio. Sebbene osteggiato dal settore imprenditoriale, il taglio dei turni lavorativi viene percepito come una misura necessaria per creare posti di lavoro, incrementare la produttività e aumentare il tasso di natalità. La Corea del Sud è oggi il paese dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ad avere le settimane lavorative più massacranti dopo il Messico, tanto che i sudcoreani si trovano a spendere sul posto di lavoro 400ore più dei loro colleghi di Gran Bretagna e Australia, nonostante percepiscano buste paga pressoché analoghe. Una situazione ritenuta in passato funzionale ad assicurare, nel breve periodo, tassi di crescita sostenuti ma che a lungo andare ha creato una serie di storture sistemiche.

Secondo Chung Hyun-back, ministro per la Parità di genere e la famiglia, i turni “disumanamente lunghi” vanno annoverati tra le cause del rapido invecchiamento della popolazione nel paese asiatico. Stando a un recente sondaggio, solo il 68% delle donne sudcoreane iscritte all’università intende sposarsi, contro l’80% dei coetanei maschi. Il paese presenta anche un netto divario retributivo di genere. A gennaio Moon ha promesso che il governo “condividerà il peso dell’assistenza all’infanzia” grazie alla concessione di un’indennità mensile per i genitori con bambini sotto i 5 anni, a cui si aggiungerà l’apertura di 450 nuovi centri di assistenza diurna.

“Se non affrontiamo il problema frontalmente, il futuro della Corea del Sud si prospetta oscuro, considerato l’allontanamento delle nuove generazioni dal matrimonio — per non parlare del parto”, ha spiegato Chung ad Afp. Ma mentre l’alleggerimento degli orari di lavoro strizza l’occhio alle politiche demografiche, i risvolti in termini di efficienza produttiva sono molto più incerti. “Stabilire orari di lavoro più brevi è un requisito necessario per il bene e la felicità [della popolazione], ma è una questione che va discussa insieme al problema della produttività del lavoro”, ha spiegato a Bloomberg Kim Tai-gi, professore di economia presso la Dankook University di Jukjeon, “senza una migliore produttività, dovremo far fronte a effetti collaterali come un calo del reddito per i lavoratori e un aumento dei costi per i datori di lavoro”.

Come evidenziano dati rilasciati dall’Ocse ad ottobre, sebbene nel 2017 l’export sudcoreano si sia espanso ai livelli più alti in sessant’anni grazie alle spedizioni di semiconduttori, macchinari e prodotti petrolchimici, la produttività industriale è ancora circa il 50% di quella dei paesi membri più performanti. Nel 2015, il valore del prodotto interno lordo della Corea del Sud per ora lavorata è stato di 31 dollari, il quinto più basso all’interno dell’Organizzazione.

Secondo uno studio del Korean Economic Research Institute, alla luce delle nuove regole le aziende saranno costrette a sborsare 11 miliardi di dollari in più ogni anno per mantenere gli stessi livelli di produzione.

Intanto, anche il Giappone si prepara ad affrontare una riforma del lavoro. Per alcuni versi, però, in senso opposto. L’amministrazione conservatrice guidata da Shinzo Abe intendeva sottoporre al voto parlamentare una proposta di riforma del lavoro che prevedeva l’allargamento dell’orario “discrezionale” a diversi settori per aumentare la produttività, tra le più basse dell’area del G7. Questo sistema è al momento in vigore per alcune professioni specialistiche, comporta un servizio più lungo delle canoniche otto ore ed emolumenti comprensivi di una quota per lo straordinario.

La proposta — che strizza l’occhio alle imprese — è stata però ritirata in seguito alle proteste dell’opposizione che hanno messo in dubbio la veridicità dei dati portati dal governo a sostegno della necessità della riforma. Abe, tra gli altri errori contenuti in un apparente report del ministero del lavoro, aveva citato il caso di un lavoratore che in un giorno aveva registrato 45 ore di straordinario e di altri che invece avevano bollato la cartolina in uscita 60 minuti dopo l’entrata.

Opposizioni e opinione pubblica sono infatti preoccupate dal fatto che un provvedimento simile potrebbe solo peggiorare il problema dei suicidi e delle morti legate allo stress da troppo lavoro. Nel paese del Sol levante è infatti ancora radicata una cultura del lavoro legata al presenzialismo dei dipendenti. Dal 2017 il governo sostiene l’iniziativa del cosiddetto “premium Friday”, un venerdì di uscita anticipata al mese, senza però molto successo. Lo scorso anno alcuni casi di karoshi — morte da superlavoro, appunto — hanno riacceso i riflettori sulle condizioni di lavoro in alcuni settori lavorativi — in particolare nella comunicazione e nelle costruzioni, dove i lavoratori sono spesso costretti a lavorare più ore del dovuto.

Con la proposta di legge, per ora sospesa, Tokyo intendeva anche, tra gli altri provvedimenti, stabilire un tetto massimo di ore lavorate annue — 720 ore — e ridurre il gap salariale tra lavoratori a contratto e dipendenti.

di Alessandra Colarizi e Marco Zappa

[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]