Come ci spiega Antonio Fiori, docente dell’Università di Bologna, le ultime dichiarazioni fanno supporre “che la Corea del Nord continuerà a fare a meno degli aiuti”. Ciò, naturalmente, ha vari livelli di lettura”, suggerisce Fiori, “ad ogni modo, conoscendo il paese, non sarebbe troppo assurdo pensare che l’accettazione degli aiuti possa eventualmente essere prodromica a una ripresa del tavolo negoziale
Ufficialmente sono circa 3 milioni, ma potrebbero essere molti di più. Stiamo parlando dei sospetti casi di Covid-19 in Corea del Nord. Per due anni apparentemente immune al coronavirus, il Regno Eremita solo pochi giorni fa ha svelato di aver rintracciato le prime infezioni alla fine di aprile. Da allora il numero delle persone con sintomi compatibili con il Covid-19 è continuato a salire, salire e ancora salire al ritmo di centinaia di migliaia al giorno. I decessi sono oltre sessanta, le persone in quarantena circa 600.000. Le stime reali, tuttavia, restano un mistero. Fatta eccezione per un centinaio di casi conclamati, l’agenzia di stampa statale KCNA parla genericamente di pazienti in stato febbrile. Per confermare la diagnosi occorrerebbe effettuare migliaia di tamponi al giorno. Un’impresa che il servizio sanitario nordcoreano non è in grado di sostenere.
Consapevole dei propri limiti, il regime di Kim Jong-un, fin dall’inizio della pandemia ha adottato una politica preventiva della tolleranza zero: nel gennaio 2020 ha blindato il confine poroso con la Cina, e solo a gennaio ha ripreso gli scambi ferroviari con l’importante partner commerciale oltre il fiume Yalu. Kim non è mai stato visto indossare una mascherina fino a pochi giorni fa, quando è comparso sulla tv di stato con una chirurgica, salvo poi essersela tolta per fumare.
Ma, secondo gli esperti, è improbabile che il paese sia rimasto per due anni “virus free”. Dalla chiusura i pochi stranieri presenti nel paese – perlopiù diplomatici e cooperanti – sono partiti privando la comunità internazionale di fonti attendibili sulla situazione. Qualche indizio è pervenuto attraverso canali ufficiali: nel giugno dello scorso anno, senza fornire dettagli, i media statali hanno riferito che alcuni funzionari erano stati puniti per un “grave incidente” collegato al Covid. Non si hanno tuttavia notizie di importanti focolai. Segno che le misure adottate sono riuscite a contenere la diffusione massiccia della malattia. E poi cosa è successo? Pare che, come per la Cina, sia stata la variante Omicron a far crollare le difese. Stando ai servizi segreti sudcoreani, il virus ha cominciato a correre dopo la sfarzosa parata militare tenuta il 25 aprile per il 90° anniversario della fondazione dell’esercito rivoluzionario popolare: 20.000 soldati sono stati visti sfilare senza protezioni né distanziamento sociale.
Non è chiaro come il Covid sia arrivato a Pyongyang nonostante l’interruzione dei rapporti con l’esterno. Secondo Radio Free Asia (fonte non sempre affidabile), i primi casi sono stati riportati tra i funzionari incaricati di sorvegliare il confine sino-coreano. E ora? Le Nazioni Unite temono una catastrofe umanitaria. Secondo il Johns Hopkins University Center for Health Security, la Corea del Nord si classifica al 193° posto su 195 paesi per servizi sanitari. Il Regno Eremita non ha mai avviato una campagna vaccinale e non sembra avere accesso ai farmaci antivirali più usati all’estero. Gli ospedali locali hanno poche terapie intensive e la diffusa malnutrizione ha reso la popolazione più suscettibile a malattie gravi.
Negli scorsi giorni centinaia di membri dell’esercito sono stati visti confluire nella capitale per distribuire farmaci 24 ore su 24. Per sopperire alla mancanza di terapie ufficiali, i media statali hanno incoraggiato i pazienti a usare antidolorifici e antibiotici, nonché rimedi casalinghi di dubbia efficacia, come fare gargarismi con acqua salata e bere tè a base di caprifoglio o foglie di salice. La maggior parte dei decessi segnalati di recente sono stati causati da overdose di farmaci e altre negligenze causate dalla mancanza di esperienza medica. Il “brillante leader” in persona ha fortemente criticato funzionari governativi e operatori sanitari per il loro atteggiamento irresponsabile sul lavoro, condannando altresì “diversi fenomeni negativi nella manipolazione e vendita di medicinali a livello nazionale”.
L’unica speranza è che il regime accetti l’aiuto esterno, avvertono gli esperti. Nel 2021, Pyongyang ha declinato milioni di dosi di AstraZeneca e del surrogato cinese Sinovac offerte attraverso il programma dell’Oms COVAX a causa delle clausole di indennizzo sugli effetti collaterali. Ma ora che la minaccia è reale non c’è più spazio per le sottigliezze.
Secondo fonti Reuters, lunedì 16 maggio tre aerei cargo nordcoreani sono volati verso la città di Shenyang, nel nordest della Cina, per poi fare ritorno in patria carichi di forniture mediche. Offerte di aiuto sono arrivate anche da Seul e Washington. Il nuovo presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol, dopo aver condotto una campagna elettorale dai toni rodomonteschi, ha dichiarato che (in caso di risposta positiva dai cugini del Nord) “non risparmieremo farmaci, compresi i vaccini COVID-19, le attrezzature mediche e il personale sanitario”. Atterrato a Seul nel weekend, anche Joe Biden ha convenuto sulla necessità di prestare assistenza al Regno Eremita, sebbene non vi siano sviluppi concreti in tal senso.
Proprio il contesto geopolitico potrebbe aver indotto Kim ad ammettere la crisi epidemica. Come spiega a Internazionale Carla Vitantonio, cooperante e autrice di Pyongyang Blues, resoconto dei quattro anni trascorsi in Corea del Nord, “è verosimile che il Covid sia uno strumento per fare leva sull’invio di aiuti internazionali”. Questo è il periodo in cui, passate le tradizionali tensioni del mese di aprile – quando ogni anno esercitazioni militari e test missilistici scuotono la penisola – Pyongyang fa previsioni sulla stagione agricola e chiede aiuti umanitari. Ma chiedere a chi? Per Owen Miller della SOAS di Londra, dopo la terribile carestia degli anni ‘90, il regime considera umiliante accettare il sostegno della comunità internazionale. Lo è meno affidarsi alla Cina, l’unica potenza (oltre alla Russia) con cui il regime nordcoreano ha buoni rapporti. Le recenti rassicurazioni sul calo delle infezioni sembrano proprio voler minimizzare l’impatto della malattia.
Venerdì scorso l’emittente statale ha parlato di “buoni risultati nella guerra antiepidemica”, smentendo ricadute sostanziali sulla produzione industriale e i progetti infrastrutturali. I jangmadang, i mercati contadini che dalla carestia formano una vasta economia informale, sono rimasti aperti. Per gli esperti, la gente teme più la sospensione delle attività produttive che di ammalarsi. Come ci spiega Antonio Fiori, docente dell’Università di Bologna, le ultime dichiarazioni fanno supporre “che il regime continuerà a fare a meno degli aiuti”. Ciò, naturalmente, ha vari livelli di lettura”, suggerisce Fiori, “ad ogni modo, conoscendo il paese, non sarebbe troppo assurdo pensare che l’accettazione degli aiuti possa eventualmente essere prodromica a una ripresa del tavolo negoziale; dalla Corea del Nord è lecito aspettarsi anche questo, sebbene non è ciò che sta avvenendo in questo momento.”
Tra le sanzioni internazionali e l’interruzione dei commerci transfrontalieri a causa della pandemia, nel 2020 la crescita nordcoreana ha riportato la peggiore contrazione in 23 anni. La diffusione del virus entro i confini nazionali potrebbe avere effetti devastanti per l’economia del paese. Il condizionale è d’obbligo considerata l’opacità del sistema politico nordcoreano. Per ora l’emergenza sanitaria non sembra aver ridimensionato le velleità belliciste di Pyongyang. Appena poche ore dopo la conferma dei primi casi di Covid, il regime ha effettuato il collaudo di tre test missili balistici a corto raggio verso il Mar del Giappone. Secondo l’intelligence statunitense, concluso il viaggio asiatico di Biden, c’è “la possibilità concreta” che Kim rispolveri il sito nucleare di Punggye-ri a cinque anni dalla chiusura. Non resta che vedere se lo farà con o senza mascherina.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Esquire]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.