Dieci minuti di esercizio fisico al giorno. E’ quanto il governo cinese raccomanda agli studenti per combattere obesità, diabete e malattie cardiovascolari. Ma lo sport, si sa, non basta ad attutire i danni provocati da una dieta sbilanciata. In un paese in cui le grandi, medie e piccole città sono ormai costellate di fast food, il disinteresse delle autorità cinesi per le cattive abitudini alimentari dei cittadini risulta quantomai sospetto. Sospetti fondati.
Secondo uno studio pubblicato su The BMJ e The Journal of Public Health Policy, da anni Coca Cola e altri colossi occidentali del food & beverage starebbero manipolando le politiche alimentari formulate da Pechino per far fronte alla diffusione di patologie causate dalla diffusione del junk food. Come? Attraverso l’International Life Sciences Institute, un’organizzazione con base a Washington che da trent’anni conduce attività di lobbying all’interno della macchina governativa per promuovere una regolare attività fisica come “cura” per l’obesità così da sviare l’attenzione dalle reali cause del sovrappeso a cui è soggetta la popolazione cinese: un consumo sproporzionato di bevande zuccherate e “cibo spazzatura” introdotto dalle multinazionali americane con l’apertura del mercato interno ai capitali esteri.
Finanziato da colossi quali Nestlé, McDonald’s, Pepsi Co. e Coca-Cola, l’ILSI vanta 17 filiali in giro per il mondo – la maggior parte in paesi emergenti come Messico, India, Sud Africa e Brasile – e si presenta come un anello di congiunzione tra scienziati, funzionari statali e multinazionali della ristorazione, fornendo sostegno nell’elaborazione di orientamenti e strategie in materia di nutrizione, sicurezza alimentare, prevenzione e controllo delle malattie croniche. Ma, stando al New York Times, in Cina l’organizzazione è così inserita da aver preso posto all’interno del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie di Pechino (CDC), organismo di controllo sulla sanità pubblica. Un privilegio che le avrebbe permesso di dribblare il dibattito che in Occidente procede in direzione di una più ferrea regolamentazione del settore alimentare, con tanto di tasse sulle bibite gassate e zuccherate. Fin dal 1993, il gruppo ha potuto contare sul peso politico della sua direttrice Chen Chunming, fondatrice dell’Accademia cinese di medicina preventiva (precursore del CDC), deceduta lo scorso anno.
“Nel corso di diversi decenni, Coca-Cola e l’ILSI hanno lavorato per prevenire qualsiasi tipo di politica alimentare che potesse giovare alla salute pubblica”, spiega Barry Popkin, esperto di nutrizione della University of North Carolina, “ciò che hanno fatto in Cina è insidioso.” Secondo l’indagine – che include documenti pubblici di Coca Cola e ILSI oltre a interviste rilasciate da scienziati e funzionari cinesi – a partire dagli anni ’90, l’organizzazione ha promosso e sovvenzionato sei conferenze per sensibilizzare il paese al problema dell’obesità; solo raramente tuttavia ha dato risalto alla necessità di ridurre le calorie o il consumo di alimenti trasformati e bevande zuccherate, concentrando l’attenzione su iniziative sportive come “Happy 10 Minutes”.
Come spiega Susan Greenhalgh, esperta di scienze sociali presso l’Harvard University nonché autrice dello studio, oltre la Muraglia il potere persuasivo delle multinazionali – parzialmente contrastato nei paesi democratici – si è avvalso della mancanza di un giornalismo indipendente e meccanismi di controllo a livello di società civile, continuando a “manovrare abilmente in una posizione di potere dietro le quinte in modo da assicurare che le politiche governative per combattere la crescente epidemia dell’obesità non pregiudichino i propri interessi”.
Accuse che l’ILSI ha negato riaffermando il proprio impegno nel garantire “l’integrità scientifica della ricerca nel settore alimentare” senza interferire nelle attività di policy making dei paesi in cui opera. Più trasparenza è quanto promette invece Coca Cola, mettendo tuttavia in risalto gli sforzi intrapresi negli ultimi anni per incrementare l’offerta di bevande senza zucchero e migliorare l’etichettatura nutrizionale dei prodotti.
Condizioni economiche più agiate hanno portato a un cambiamento radicale delle abitudini gastronomiche del gigante asiatico, ormai primo mercato estero di KFC. Secondo le statistiche rilasciate nel 2017 dal Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie, il 30% degli adulti cinesi è in sovrappeso mentre l’11,9% è da ritenersi obeso. Addirittura, per il report Global Burden of Disease rilasciato lo stesso anno dalla University of Washington, la Cina sarebbe già il primo paese per numero di bambini affetti da obesità: ben 15 milioni.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.