Pechino punta da tempo alla creazione di un’immensa classe media, che possa trainare il mercato interno e garantire la stabilità sociale e politica. Ma gli ultimi dati indicano che la forbice tra ricchi e poveri si sta allargando
Di Xi Jinping si è sottolineato il tentativo di porre la Cina al centro di trame globali. La sua politica estera ha costituito un’importante novità per il partito comunista cinese: fino a Xi Jinping la Cina ha sempre avuto un atteggiamento prudente in politica estera. Il lancio della Nuova via della seta, inserita, così come il pensiero politico di Xi, all’interno dello statuto del partito comunista, ha sancito questa novità ragguardevole sullo scacchiere mondiale.
Ma Xi Jinping, così come i suoi predecessori, sa bene che la postura internazionale della Cina non ha senso se non è sorretta da una politica interna in grado di assicurare la stabilità e il controllo sociale totale da parte del Partito comunista. E questo è possibile solo eliminando le diseguaglianze foriere di proteste e potenziali grane di natura sociale.
Xi Jinping ha ereditato un Paese che, seppure non abbia sofferto in modo traumatico la crisi occidentale del 2008, aveva la necessità di mutare il proprio modello di sviluppo. In Cina si parlava da tempo, del resto, della necessità di dipendere meno dalle esportazioni, di riformare le aziende di Stato, di tenere sotto controllo alcune bolle, su tutte quella immobiliare, e di dedicare attenzione e investimenti affinché il mercato interno diventasse il traino dell’economia del Paese.
Per quanto riguarda le esportazioni e la ricerca di nuovi mercati per il surplus prodotto da Pechino, la Nuova via della seta — oltre ai suoi evidenti connotati geopolitici — va proprio in questa direzione. Quanto al mercato interno, la spinta è stata data all’innovazione e agli investimenti nel campo della ricerca: il passaggio dalla quantità alla qualità è quanto da tempo cerca di mettere in moto la dirigenza cinese.
In questo quadro si inserisce la necessità di arrivare a una “moderata prosperità” per la totalità della popolazione cinese. Questo implica la necessità di ampliare le possibilità di accesso al mercato da parte degli strati più poveri, nel tentativo di trasformare la popolazione cinese in una immensa classe media capace di soddisfare al meglio i propri bisogni primari.
Per quanto cinica, è da leggere in questa direzione la recente decisione di Pechino di espellere gli strati più poveri dalle grandi città, affinché possano trovare una sistemazione migliore nelle città di piccole e medie dimensioni, che più delle grandi metropoli necessitano lavoratori. Da un lato, dunque, Xi Jinping ha spinto affinché le città più grandi diventassero vetrine della crescita cinese, simbolo di modernità e ricchezza — per la prima volta da molti anni la popolazione di Pechino pare aver arrestato la propria crescita — traghettando fasce di popolazioni in città minori, il cui obiettivo sarà diventare città vivibili, senza fasce estreme di povertà. Ma lo stesso Xi Jinping, proprio nel suo discorso di tre ore e mezza al diciannovesimo congresso del Partito comunista, ha sottolineato il problema: in Cina esistono ancora troppi poveri ed è quello l’obiettivo interno da risolvere.
Secondo il Partito comunista un modo per eliminare queste sacche di povertà è rappresentato dalla campagna anti-corruzione: incarcerare i funzionari che, stando al partito, con le loro ruberie interrompono la possibilità di mitigare i problemi della parte di popolazione meno abbiente. Ma questi desiderata, per ora, si scontrano con i dati rilasciati dall’Ufficio nazionale di statistica: secondo questi numeri la “moderata prosperità” è ancora molto lontana, perché la forbice tra ricchi e poveri, anziché restringersi, pare ampliarsi.
Stando all’Ufficio statistico di Pechino, il coefficiente Gini della Cina — strumento con il quale si misura il livello delle disuguaglianze economiche — sarebbe aumentato da 0.462 a 0,467 lo scorso anno. Il dato sarebbe dunque superiore di 0,005 a quello del 2015, quando il coefficiente — che spazia da 0 a 1 — aveva toccato un minimo dopo il record di 0,491 del 2008. Questi dati sono, solo in parte, compensati da altri: i salari delle fasce più deboli delle società dimostrano una minima crescita rispetto al passato ma crescono molto meno di quelli degli strati più ricchi.
Secondo Ning Jizhe, a capo dell’Ufficio statistico, «il governo cinese guarda al 2020 in termini di eliminazione della povertà residua nel Paese ma la missione rimane complicata. La disparità di reddito regionale e il divario di ricchezza tra aree urbane e rurali rimangono ampie». Benché, da dati ufficiali, il numero di cittadini cinesi che vivono in condizioni di povertà risulti calato da 98,9 a 43,3 milioni, con un calo medio di 13,9 milioni di persone all’anno.
Secondo il magazine Nikkei Asia Review, uno dei principali fattori che contribuiscono all’aumento delle diseguaglianze economiche sarebbe la bolla immobiliare cinese: i prezzi degli immobili hanno iniziato a crescere nel 2015 a seguito dell’allentamento dei requisiti per la concessione di mutui, per aumentare lo stock di abitazioni di proprietà. Questa misura avrebbe però finito per causare un aumento della speculazione “in un mercato dove i prezzi, specie nelle aree urbane, erano già elevatissimi”. Molti dei cinesi più ricchi, proprietari di molteplici immobili, hanno beneficiato di queste dinamiche aumentando il loro patrimonio. Proprio mentre i più poveri perdevano anche quelle abitazioni di fortuna che fino a poco tempo fa eravamo abituati a vedere, lambire e osservare, in molte delle più grandi città cinesi.
di Simone Pieranni
[Pubblicato su Eastwest]