Dopo mesi di tumulto politico a Hong Kong, la douzheng, “la lotta”, è un termine onnipresente nel discorso di Xi Jinping, che martedì scorso durante un summit con i vertici del PCC ha invitato a mantenere uno “spirito combattivo” per i prossimi decenni. Infatti, le proteste hanno messo in evidenza lo scisma interno al partito, diviso tra quelli che sostengono la linea dura di Xi e altri che chiedono più concessioni in favore di Hong Kong di modo da preservare la sua stabilità socioeconomica. La strategia di Xi, ovvero contenere la crisi ed attendere che il cambiamento arrivi naturalmente, ha disatteso le speranze di alcuni nei vertici del PCC, preoccupati dall’abisso politico creatosi non solo tra il governo centrale ed i cittadini di Hong Kong, ma anche con gli investitori nazionali ed internazionali. Nonostante ad Hong Kong sembri sopraggiunta una tregua, lo stesso non si può dire per l’economia cinese. Se il tasso di crescita del PIL cinese scenderà sotto il 6% per il 2020, come stimano le maggiori agenzie internazionali, le promesse fatte da Pechino di raddoppiare il PIL entro il 2020 rispetto al valore del 2010 andrebbero in frantumi. Ciò amplierebbe il divario in seno al partito e comprometterebbe la posizione cinese sul piano globale. Lo spirito combattivo a cui fa riferimento Xi è dunque da intendersi come la volontà ferrea da parte del PCC di risolvere le sue dispute fronteggiando congiuntamente economia e politica interna, abbandonando la tecnica “aspetta e spera” in favore di un approccio più proattivo [fonte: SupChina, NYT]
Hong Kong chiede aiuto a Trump
Hong Kong è parte inseparabile della Cina e Pechino non permetterà alle forze separatiste di minare l’unità nazionale. L’avvertimento giunge all’indomani del 14esimo weekend di protesta e a pochi giorni dall’annuncio del ritiro formale della controversa legge sull’estradizione. Una concessione definita dai dimostranti tardiva e incompleta alla luce delle altre quattro richieste avanzate: l’amnistia per tutti gli arrestati; l’istituzione di una commissione indipendente per accertare l’utilizzo della forza da parte della polizia durante gli sgomberi; una riabilitazione del movimento bollato dalle autorità come “riot”; l’introduzione di riforme politiche volte ad assicurare il suffragio universale assicurato dalla Basic Law ma negato da Pechino. Troppo per l’amministrazione Lam che, con l’endorsement della leadership comunista, ha escluso di mettere in discussione l’operato delle forze dell’ordine, dalle cui capacità dipende la mobilitazione o meno dell’esercito cinese. Intanto, la mancanza di un dialogo schietto tra le due parti sta spingendo i manifestanti a cercare aiuto oltremare. Nella giornata di domenica, munite di bandiere a stelle e strisce, migliaia di persone hanno marciato in direzione del consolato americano per implorare Trump di “liberare” l’ex colonia britannica dalla stretta di Pechino. Nello specifico i manifestanti auspicano l’approvazione del Hong Kong Human Rights and Democracy Act 2019, che minaccia di limitare i privilegi concessi da Washington in virtù del suo status speciale. Per Pechino è un segno in più della natura eterodiretta delle proteste. [Fonte CNN]
Peste suina: monta il malumore per l’aumento dei prezzi della carne
Le autorità provinciali cinesi stanno adottando nuove misure (17 da fine agosto) per calmierare i prezzi della carne di maiale, il cui prezzo è in aumento da mesi in seguito all’epidemia di peste suina africana che a sterminato moltissimi capi e, quindi, ridotto la disponibilità sul mercato cinese. La carne di maiale è la pietanza prediletta dei cinesi e Pechino intende implementare le misure in vista delle festività autunnali ed invernali. Per quanto riguarda i provvedimenti adottati, Pechino intende procedere sul lungo termine con sussidi per la creazione di piccoli e medi allevamenti nelle province più rurali, mentre sul breve termine si impegnerà a rilasciare dalle sue riserve milioni di tonnellate di carne di maiale congelata e rivenderla ad un prezzo scontato a supermercati, scuole, caffetterie e ristoranti. Le misure tuttavia generano scontento tra i piccoli allevatori della Cina rurale, che solo nel 2016 erano stati costretti a svendere a Pechino i loro allevamenti, come previsto dal piano governativo di centralizzazione della produzione di carne suina. Nonostante gli ingenti investimenti cinesi per calmierare i prezzi, i negozianti cinesi faranno di questa situazione il loro asso nella manica, incrementando le tensioni tra il governo e la società civile. [Fonte: Scmp]
Huawei verso l’era post Google
Huawei comincia a pensare seriamente a rimpiazzare Google, nel caso in cui le tensioni con Washington dovessero perdurare più del previsto. Secondo quanto affermato allo Spiegel dal Ceo Richard Yu per gli attuali prodotti l’azienda rimarrà federe ad Android, ma “se i vincoli rimarranno, utilizzeremo il nostro HarmonyOS [il sistema operativo sviluppato da Huawei] per i prodotti futuri, ad esempio, per Huawei P40, previsto per la primavera del 2020”. La conferma arriva dopo l’annuncio che la gamma Mate 30 – mondiale a Monaco di Baviera il 19 settembre – non uscirà in Europa proprio a causa delle restrizioni a cui è soggetto il colosso di Mountain View: “l’intenzione è continuare a utilizzare il sistema Android ma se i divieti dovessero permanere siamo pronti a installare la versione ‘open source’, libera, di Android, senza Google Apps e Play Store. Gli utenti troveranno le applicazioni dal nostro store App Gallery o su altri store”. Le cose non si mettono bene per Huawei, trascinata nel mese di maggio al centro della trade war. Ma l’inclusione dell’azienda nella blacklist del dipartimento del Commercio americano non sembra l’unico espediente utilizzato dall’amministrazione Trump per rallentare l’ascesa tecnologica cinese. Secondo quanto affermato da Huawei in un recente comunicato stampa, gli Stati Uniti non hanno mancato di infiltrarsi nelle reti aziendali e minacciare i dipendenti, scomodando persino gli agenti dell’FBI, pur di sabotare le proprie attività [Fonte: Global Times, BBC]
Emissioni e internet data
Il promettente settore degli Internet data aumenterà il consumo di energia di due terzi entro il 2023, complicando i piani messi in atto dal governo cinese per ridurre le emissioni di carbonio. E’ quanto sostiene un rapporto stilato congiuntamente da Greenpeace e dalla North China Electric Power University, stando al quale lo scorso anno il settore ha prodotto circa 99 milioni di tonnellate di CO2. Oltre la Muraglia, il consumo di energia da parte dei data center ha raggiunto i 161 terawattora (TWh) nel 2018, pari al 2,35 per cento del totale, ed è destinato a salire a 267 TWh nei prossimi cinque anni, più di quanto totalizzato dall’Australia da tutte le fonti lo scorso anno. Lo studio conclude che è ancora possibile limitare le emissioni alle 16 milioni di tonnellate purché il settore delle rinnovabili venga potenziato dal 23% al 30% [fonte: Reuters]
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