I titoli di oggi:
- Usa e Cina discutono possibile tetto al greggio russo
- Hong Kong: condannata “Nonna Wong”
- Il colosso cinese dei chip ritorna sul mercato
- Ex manager della Tepco condannati a un risarcimento record per il disastro di Fukushima
Gli Usa stanno tentando ogni carta vincente per allontanare la Cina dalla Russia e per limitare le entrate del Cremlino dalle vendite del petrolio. Intervistata dal Wall Street Journal, la Segretaria al Tesoro statunitense Janet Yellen ha affermato di aver discusso la possibilità di porre un tetto al prezzo del petrolio russo durante un incontro virtuale con il vicepremier cinese Liu He. Yellen vuole mettere all’angolo Mosca, poiché sa che il Cremlino, con la cessazione delle vendite di petrolio, sarebbe costretto a chiudere pozzi del greggio e a ridurre in modo permanente la propria capacità produttiva.
Tutto è però ancora in fase di discussione. A Tokyo, nella tappa iniziale del suo primo viaggio in Asia come Segretario del Tesoro, Yellen ha dichiarato che lei e il suo omologo cinese continueranno a lavorare a tale idea. La Cina e l’India sono i due obiettivi cruciali della segretaria statunitense, nel tentativo di creare un tetto al prezzo del petrolio russo. Dopo la Cina, Yellen vorrà sondare il terreno anche in zona indiana: da qui, l’esigenza di intavolare una discussione sul tema del greggio russo con il ministro delle Finanze indiano, Nirmala Sitharaman, a margine della riunione dei ministri delle Finanze del Gruppo delle 20 maggiori economie a Bali, in Indonesia, nei prossimi giorni.
New Delhi e Pechino sono tra i principali acquirenti di petrolio russo ed entrambe si sono astenute dall’unirsi agli sforzi occidentali per sanzionare la Russia dopo la sua invasione dell’Ucraina. Gli Usa vogliono giocare la carta del controllo occidentale delle assicurazioni e del finanziamento delle spedizioni di petrolio per dettare effettivamente il prezzo a cui i diversi paesi, in primis Cina e India, possono acquistare petrolio russo.
Condannata “Nonna Wong” di Hong Kong
“Nonna Wong” finirà in carcere. La 66enne attivista Alexandra Wong, uno dei volti più noti delle proteste pro-democrazia del 2019 a Hong Kong, è stata condannata a otto mesi di carcere per assemblea illegale (sigla utilizzata dal governo locale per indicare le manifestazioni popolari e per mandare alla sbarra i manifestanti pro-democrazia) e, quindi, per aver partecipato a due “assemblee illegali” nell’agosto 2019. In occasione delle manifestazioni, Wong – secondo l’accusa – ha pronunciato “parole offensive” e ha incoraggiato i raduni considerati illegali dall’autorità giudiziaria dell’ex colonia britannica.
La 66enne attivista, spesso vista alle manifestazioni pro-democrazia mentre sventolava una bandiera britannica dell’Union Jack, in aula ha criticato il governo di Hong Kong definendolo un “regime autoritario”. Wong ha poi denunciato la sua esperienza con la polizia cinese, che l’ha detenuta per 14 mesi in Cina e costretta a firmare e filmare una confessione fasulla.
La condanna dell’anziana manifestante è l’ultima di una lunga serie: solo due giorni fa, l’attivista il 75enne Koo Sze-yiu, malato terminale di cancro, è stato condannato a nove mesi per “tentata sedizione” per una protesta contro le Olimpiadi Invernali di Pechino 2022, che però è stata sventate dalla polizia. E’ l’ennesimo effetto della legge sulla sicurezza nazionale introdotta nel 2020: oltre 2.800 persone sono finite alla sbarra per reati relativi alle proteste.
Ex manager della Tepco condannati a un risarcimento record per il disastro di Fukushima
Il tribunale distrettuale di Tokyo ha giudicato colpevoli quattro ex dirigenti dell’operatore Tokyo Electric Power (Tepco), ordinando un risarcimento di danni record per non essere riusciti a prevenire il grave incidente nucleare che ha colpito la centrale di Fukushima Daiichi nel 2011. Gli imputati sono stati condannati al pagamento della somma di 13.200 miliardi di yen (quasi 95 miliardi di euro). Tra i cinque imputati – l’ex presidente Tsunehisa Katsumata, gli ex vice presidenti Sakae Muto e Ichiro Takekuro, l’ex presidente Masataka Shimizu e l’ex amministratore delegato Akio Komori – la corte ha condannato a pagare il maxi risarcimento, fatta eccezione dell’ex ad Komori.
La decisione del tribunale distrettuale della capitale arriva a più di dieci anni dalla triplice catastrofe che ha causato la morte di oltre 18.000 persone. Il contenzioso è stato intentato nel 2012 da 48 azionisti di Tepco, che imputavano ai dirigenti di non essere riusciti a prevenire il disastro del marzo 2011, causando perdite gigantesche al gruppo.
In sua difesa, Tepco ha affermato di non essere stato in grado di prendere precauzioni contro uno tsunami dalle enormi dimensioni, come quello che ha colpito la zona di Fukushima nel marzo 2011, sostenendo di aver attuato tutte le misure necessarie per proteggere l’impianto. Durante il processo, però sono stati presentati diversi documenti che hanno ribaltato la tesi della difesa. Un documento interno dell’azienda risalente al 2015 ha dimostrato come il colosso giapponese fosse consapevole già due anni prima del 2011 della falle di sicurezza della struttura contro eventi devastanti come uno tsunami, ma non ha implementato le difese dell’impianto. I querelanti, in fase processuale, hanno anche citato una valutazione del governo giapponese secondo cui la Tepco aveva previsto già nel giugno 2008 che l’impianto di Fukushima sarebbe stato colpito da un’onda anomala stimata fino a 15,7 metri di altezza.
Dura la condanna del presidente del tribunale distrettuale di Tokyo, Yoshihide Asakura, secondo cui le contromisure da parte della dirigenza Tepco “mancavano fondamentalmente di consapevolezza sulle norme di sicurezza e senso di responsabilità”. Gli azionisti della Tepco avevano chiesto un risarcimento di 22 trilioni di yen (160 miliardi di dollari), l’importo più alto mai richiesto per un risarcimento in una causa civile in Giappone. È improbabile che i dirigenti ritenuti responsabili abbiano la capacità di saldare l’intero importo.
Il colosso cinese dei chip ritorna sul mercato
Tsinghua Unigroup, l’ex conglomerato tecnologico e produttore di chip affiliato alla principale e omonima università cinese, ha completato dopo un anno il suo processo di ristrutturazione del debito, ponendo fine alla crisi che avrebbe messo a rischio il ruolo della società nel settore dei semiconduttori. Unigroup, che passerà alla storia per la sua offerta senza successo da 23 miliardi di dollari per l’acquisizione del produttore di chip statunitense Micron Technology nel 2015, aveva un debito di oltre 200 miliardi di yuan dopo anni di espansione aggressiva in settori come la finanza, l’energia e l’istruzione. L’azienda ha avviato una ristrutturazione fallimentare ordinata dal tribunale nel luglio dello scorso anno.
Il colosso tecnologico, con sede a Pechino, ha ora un nuovo proprietario, la Beijing Zhiguangxin Holding, formata lo scorso anno dall’investitore principale Wise Road Capital e dal suo fondo gemello Beijing Jianguang Asset Management Co, noto come JAC Capital. Il maggiore azionista di Zhiguangxin, con una partecipazione del 29 per cento nella società, è il fondo statale Wuhu Xinhou Yunzhi Equity Investment Partnership, controllata da Li Bin, ex dirigente della Semiconductor Manufacturing International Corp. Il piano di rimborso prevede un esborso in contanti di 60 miliardi di yuan (8,94 miliardi di dollari) e vari swap di debito in azioni.
La nuova prospettiva di vita dell’Unigroup ha impedito il crollo di una grande impresa hi-tech con attività che alimentano la catena di fornitura di semiconduttori cinese. A risollevare le sorti dell’azienda tecnologica c’è anche la taiwanese Foxconn, che prevede di investire 9,8 miliardi di yuan (1,46 miliardi di dollari) nel produttore cinese di chip Tsinghua Unigroup. L’azione finanziaria dovrà però ricevere il disco verde dell’autorità di Taiwan.
A cura di Serena Console
Sanseverese, classe 1989. Giornalista e videomaker. Si è laureata in Lingua e Cultura orientale (cinese e giapponese) all’Orientale di Napoli e poi si è avvicinata al giornalismo. Attualmente collabora con diverse testate italiane.