I titoli di oggi:
- Un altro caso di maltrattamento riaccende il dibattito sul traffico delle donne cinesi
- Morte sul lavoro: nuove polemiche sulla “cultura 996”
- Il progetto dei Nft di Tencent riceve il via libera dell’Onu
- Pechino e Seul litigano sull’hanbok/hanfu
Dopo le indagini avviate dal governo cinese sul caso di Xiao Huamei, la donna affetta da disabilità mentale e tenuta con una catena al collo in un villaggio del Jiangsu, la cui storia è diventata virale per un video girato da un vlogger, spunta un filmato su un caso simile proprio nello stesso villaggio. Il video, girato sempre dal vlogger Xuzhou Brother Yixiu (徐州一修哥), riprende una donna sdraiata sul pavimento della sua abitazione, incapace di comunicare. Secondo il vlogger, che aveva postato il video sulla piattaforma Douyin prima che venisse cancellato, si sa poco della donna. E le poche informazioni non sono rassicuranti. La donna, il cui cognome è Zhong, è madre di due figli, di cui uno adulto, e sarebbe stata sottoposta a cure psichiatriche in un ospedale locale prima di tornare a casa e giacere sul pavimento per vent’anni. Secondo quanto raccontato dal figlio maggiore, sua madre è malata ed è rimasta a terra per evitare di cadere dal letto.
Ma non si esclude che sia vittima di tratta di essere umani. Secondo alcuni conoscenti della famiglia, il marito di Zhong, che avrebbe contattato l’autore del video di Xiao Huamei per avviare una raccolta fondi, ha comprato sua moglie per 1.000 yuan (157 dollari). Gli abitanti del villaggio hanno riferito a Caixin che il marito di Zhong l’ha violentata e picchiata per anni. Probabilmente le autorità faranno luce anche su questo caso. Per il diritto penale cinese, il rapimento e la vendita di donne e bambini prevede il carcere – dai cinque ai dieci anni di reclusione – e una multa. In circostanze gravi possono essere applicate la pena di morte e la confisca dei beni. La tratta di esseri umani, in particolare di donne nelle zone rurali, rimane un problema significativo in Cina. Secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica, nel 2017 sono state 6.668 le donne e i bambini vittime della tratta di esseri umani.
Un’altra morte sul lavoro riaccende il dibattito sulla “cultura 996”
Il settore tecnologico cinese miete un’altra vittima. Un dipendente del sito di streaming video cinese Bilibili è morto di emorragia cerebrale il 4 febbraio dopo un turno festivo svolto durante il Capodanno lunare. L’uomo, originario di Wuhan, aveva 25 anni e si occupava della revisione dei contenuti. La notizia del decesso ha acceso il dibattito sulle condizioni di lavoro nelle aziende tech e sulla “cultura 996” (le dodici ore al giorno per sei giorni a settimana tipiche di un impiego nel tech), infiammato poi dalla posizione assunta dal colosso video: la società, che ha respinto la correlazione della morte del dipendente con gli straordinari e i ritmi stressanti, ha reso noto che assumerà più personale per sostenere il carico di lavoro del team di revisione dei contenuti. Bilibili va oltre e promette anche una maggiore attenzione alla salute dei suoi dipendenti. La società con sede a Shanghai si difende, sostenendo di rispettare i diritti dei lavoratori, in base alle norme vigenti: otto ore di lavoro al giorno per cinque giorni alla settimana, con due giorni di riposo. Inoltre, i dipendenti in ferie sono pagati tre volte il loro normale stipendio in conformità con la legge. La triste vicenda del 25enne è diventata virale su Weibo e ha alimentato il dibattito di molti lavoratori del settore tech sull’indifferenza del governo di fronte all’ondata di decessi sul lavoro nel settore tech.
Il progetto dei Nft di Tencent riceve il via libera dell’Onu
I Nft (Non-fungible token) cinesi vengono accolti da un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite. Un progetto per la creazione di un quadro tecnico per i Nft, promosso da Tencent Holdings, è stato approvato dall’Unione internazionale delle telecomunicazioni, l’agenzia dell’Onu che si occupa delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Tencent non è l’unico big a trainare quello che viene denominato “technical framework for distributed ledger technology (DLT)-based digital collection services”. Nel primo progetto di token digitali al mondo approvato dalle Nazioni Unite fanno la loro parte da gigante anche altre realtà cinesi, come l’Accademia cinese di tecnologia dell’informazione e delle comunicazioni, l’Università delle poste e delle telecomunicazioni di Pechino e lo Zhejiang Lab, un centro di innovazione fondato dal governo dello Zhejiang, l’Università di Zhejiang, e il colosso tecnologico Alibaba Group.
La prima bozza dovrebbe essere completata entro la fine del 2022 mentre il testo finale verrà chiuso entro la fine del 2023. Ma cosa ha di particolare questo progetto? E’ la struttura messa in campo dal governo di Pechino: molte aziende tecnologiche cinesi offrono Nft basati su blockchain di consorzi, diverse dalle blockchain pubbliche, che vengono supervisionate da organizzazioni centralizzate senza partecipazione pubblica.
Gli Nft cinesi, infatti, non utilizzano blockchain pubbliche per il divieto posto dal governo cinese sull’utilizzo di criptovalute. Pechino sta infatti sviluppando le proprie reti per gestire i token, pagati esclusivamente in yuan, che sono coniati su blockchain controllati localmente. Per supportare lo sviluppo di questi strumenti che si sono affermati nel campo dell’arte e dei collectibles c’è il Blockchain Services Network, sostenuto dallo stato cinese. Il messaggio di Pechino è semplice: sì a blockchain privata, ma sotto il controllo dello stato.
Pechino e Seul litigano sull’hanbok/hanfu
Il nuovo pomo della discordia tra Cina e Corea del Sud è l’hanbok, l’abito tradizionale coreano. Dopo il litigio sull’origine del kimchi, la popolare specialità sudcoreana a base di cavolo fermentato, Pechino e Seul discutono sulla presenza di una donna che ha sfilato con l’hanbok per rappresentare i diversi gruppi etnici durante l’inaugurazione dei Giochi invernali di Pechino. A colpi di post sui social, le ambasciate dei due paesi si lanciano accuse al vetriolo. L’ambasciata sudcoreana in Cina accusa il Dragone di “appropriazione culturale”, mentre la sede diplomatica cinese a Seul si difende sostenendo che “il popolo coreano della Cina e della penisola coreana condividono la stessa origine e hanno una cultura tradizionale comune, compresi i costumi”. L’ambasciata cinese a Seul blinda la decisione di far sfilare la donna nel tradizionale vestito coreano per rappresentare la minoranza “Chosŏnjok“, il gruppo etnico cinese di origine coreana.
Il portavoce dell’ambasciata cinese a Seul rilancia le tesi tanto care a Pechino, secondo cui la Cina “rispetta” le tradizioni storiche e culturali coreane e invita i sudcoreani a “rispettare le emozioni” delle minoranze etniche cinesi. Ma la polemica è entrata nel vivo della campagna elettorale per le presidenziali sudcoreane. Lee Jae-myung, candidato alla Casa Blu per il partito democratico, ha scritto su Facebook che la Cina non dovrebbe desiderare “la nostra cultura”. Il PPP, il Partito popolare di opposizione, ha definito l’uso dell’abito un atto “maleducato” di appropriazione della cultura di uno stato sovrano. Ahn Cheol-soo, candidato del PPP, si è unito al dibattito scrivendo su Facebook: “Alle autorità cinesi dico: è hanbok, non hanfu”. Hanfu è la traslitterazione in pinyin di hanbok.
A cura di Serena Console
Sanseverese, classe 1989. Giornalista e videomaker. Si è laureata in Lingua e Cultura orientale (cinese e giapponese) all’Orientale di Napoli e poi si è avvicinata al giornalismo. Attualmente collabora con diverse testate italiane.