Da quando la scorsa settimana Washington ha annunciato nuove restrizioni contro Huawei, la risposta di Pechino si è esaurita con la pubblicazione di qualche editoriale e comunicato piccato. Questo non vuol dire tuttavia che il governo cinese non abbia già al vaglio speculari misure di ritorsione. Un primo segnale è giunto ieri quando Xi Jinping si è recato nella provincia del Jiangxi per ispezionare uno degli stabilimenti più importanti del paese per la lavorazione delle terre rare, preziosi minerali utilizzati nel’industria militare, aerospaziale ed elettronica di cui la Cina è il principale produttore ed esportatore. A dimostrare la loro importanza strategica, le terre rare sono tra le poche voci escluse dalla lista della prossima possibile tornata di dazi statunitensi. La Cina – che rappresenta il 90% della produzione globale – stabilisce quote d’esportazione e già in passato non ha mancato di strumentalizzare le limitazioni per colpire paesi rivali. Il tour di Xi – la prima missione domestica dall’ultima escalation commerciale con Washington – ha coperto diversi luoghi simbolo della Lunga Marcia, a rimarcare la tenacia del popolo cinese davanti alle avversità. Trump è avvisato [fonte: Scmp]
Tempi duri per le aziende europee in Cina
Il rallentamento dell’economia cinese sta minando le attività delle aziende europee nel paese più della guerra commerciale con Washington. E’ quanto emerge dall’ultimo rapporto della Camera di Commercio europea, secondo il quale il 53% dei rispondenti ha riscontrato un peggioramento delle condizioni di business. Ed è l’andamento altalenante degli indicatori economici a preoccupare di più. Seguono le frizioni commerciali con gli States, l’aumento del costo del lavoro e lo stallo delle riforme economiche. Solo il 6% delle società ha dichiarato di avere già spostato la produzione fuori dal paese o di esser in procinto di farlo. Ma a preoccupare è soprattutto l’andamento crescente riportato dai casi in cui l’accesso al mercato è stato garantito solo in cambio del trasferimento di tecnologia. Il 20% degli intervistati (soprattutto nei settori high end) è incorso nel problema, rispetto al 10% di due anni fa. Continua a maturare invece la percezione che l’ascesa cinese nella catena del valore sia di beneficio per tutti. Secondo il 62% delle aziende, la controparte cinese è ugualmente o anche più innovativa rispetto alle imprese europee, fattore che stimola la concorrenza e permette di contare su fornitori di qualità [fonte: Reuters, Bloomberg]
Il 60% delle disertrici nordcoreane vende il proprio corpo
Secondo un rapporto della Korea Future Initiative, Ong con sede nel Regno Unito, il 60% delle donne nordcoreane rifugiate in Cina sono coinvolte nel commercio del sesso. Di queste, circa la metà è stata indotta alla prostituzione mentre il 15% finisce nel cybersex, dove ragazze fino a nove anni di età sono costrette a eseguire atti sessuali per un pubblico online pagante. Secondo KFI, il traffico di disertori nordcoreani in Cina genera almeno 105 milioni di dollari l’anno per trafficanti e organizzazioni criminali. Pechino, alleato di Pyongyang, si ostina a non concedere ai nuovi arrivati lo status di rifugiato rispedendoli spesso indietro. Da quando Kim Jong-un è succeduto al padre, le possibilità di fuga dal paese sono diminuite e il prezzo delle vittime del traffico di esseri umani è salito. Sebbene non ci siano dati ufficiali, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite stima il numero delle diserzioni tra le 50.000 e le 200.000. Nel 70% dei casi si tratta di donne [fonte: FT, Scmp]
Dalla trappola del debito a quella dell’aglio
Quella dell’aglio è solo una dei numerosi elementi di tensione esistenti tra le comunità locali e la presenza cinese in Africa. Siamo in Kenya, paese che vanta il terzo debito africano nei confronti della Cina dopo Angola ed Etiopia, dove l’agricoltura, di cui la coltivazione dell’aglio è parte essenziale, e impiega 49 milioni di persone, il 40% della popolazione. Da quando la presenza cinese si è affermata nel paese, si è assistito a un’impennata nell’importazione di aglio cinese nel paese. Ad oggi il Kenya importa il 50% dell’aglio che si consuma, la cui qualità è diversa da quella locale, meno dolce ma più grande, attirando molti consumatori con prezzi più bassi. La tensione si aggiunge alla recente diatriba che ha investito la pesca sempre legata all’importazione, in un Kenya sempre meno convinto che l’affaire cinese sia in effetti un buon affare [fonte: Business Daily Africa]
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Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.