Interrompere i rapporti commerciali con la Cina risparmierebbe agli Stati Uniti 500 miliardi di dollari. E’ la strana tesi sostenuta – senza dati specifici – da Donald Trump ai microfoni di Fox Business News al termine dell’ennesima sfuriata contro la gestione dell’epidemia, ultimamente ridefinita “peste cinese”. “La manodopera a basso costo si è rivelata molto costosa” ha spiegato il presidente americano alludendo alla massiccia delocalizzazione della produzione statunitense nel paese asiatico. L’interruzione della catena di distribuzione causata dal virus ha fornito un nuovo pretesto per richiamare in patria le aziende attive nei settori strategici. Non solo quelle statunitensi, come conferma la decisione annunciata stamane dal gruppo taiwanese Taiwan Semiconductor Manufacturing di aprire una fabbrica in Arizona per servire Apple e Qualcomm proteggendo le forniture da possibili nuove limitazioni al vaglio del dipartimento del Commercio. I punti di frizione tra le due superpotenze si moltiplicano di giorno in giorno. Nelle precedenti 24 ore Washington aveva confermato l’estensione dei divieti sull’utilizzo di tecnologia Huawei e ZTE per un altro anno, mentre il Thrift savings plan, la cassa di risparmio per impiegati federali in pensione e militari delle forze armate in congedo, aveva rinunciato a includere nel piano d’investimenti le aziende cinesi sospettate di gravi violazioni dei diritti umani. Da parte sua, Pechino ha cercato di calmare le acque, velocizzando l’acquisto di prodotti agricoli americani come previsto dall’accordo di fase 1 siglato a gennaio poco prima di confermare la trasmissibilità del virus. Ma secondo il nazionalista Global Times, la Cina non accetterà passivamente le accuse infondate sull’origine dell’epidemia e le richieste di risarcimento avanzate da alcuni esponenti repubblicani. Pechino avrebbe già pronta una lista di nomi da sottoporre a sanzioni. [fonte: GT, FT, SCMP]
I numeri della “società moderatamente prospera”
Covid o non Covid, la Cina di Xi Jinping punta ancora a diventare una “società moderatamente prospera” entro il 2021, come promesso. Negli ultimi mesi il presidente cinese ha confermato l’impegno nonostante la preoccupante performance economica. E se invece l’obiettivo fosse già stato raggiunto?! E’ quanto suggerisce uno studio della People’s Bank of China, la banca centrale cinese, secondo il quale il patrimonio netto medio delle famiglie urbane cinesi si attesta ormai a quota 1,41 milioni di yuan, quasi 200.000 dollari. Il risultato del sondaggio – condotto alla fine del 2019- è sbalorditivo se si considera che l’ultima indagine condotta dalla Federal Reserve nel 2016 stimava le ricchezze delle famiglie americane a circa la metà: 104.000 dollari. Per quanto incredibili, stando al sitoweb finanziario Yicai, i numeri hanno una loro logica e trovano spiegazione nella diseguaglianza sociale che contraddistingue gli Stati uniti. Infatti mentre la ricchezza mediana delle famiglie statunitensi è circa la metà di quella delle famiglie urbane cinesi, il patrimonio medio netto è circa l’80% superiore, pari a 413.000 dollari. Il rapporto tra patrimonio netto medio e mediano permette di misurare la distribuzione della ricchezza. Una seconda spiegazione risiede nella composizione degli averi famigliari, che in Cina vede prevalere nettamente la proprietà immobiliare. Nella Repubblica popolare ben il 96% delle famiglie urbane ha una casa di proprietà (il 31% ne ha due), un privilegio che in America spetta ad appena il 64% dei nuclei famigliari. [fonte Yicai]
Gadget indossabili per prevedere le epidemie
La prossima pandemia potrebbe essere sventata monitorando la frequenza cardiaca, la temperatura e la qualità del sonno. A sostenerlo è Huami, l’azienda del gruppo Xiaomi produttrice di gadget indossabili come il fitness tracker Mi Band e gli smartwatch Amazifit economici. Analizzando i dati raccolti in tre anni da 1,3 milioni di utenti tra Europa e Cina e incrociandoli con le statistiche ufficiali delle infezioni da covid-19 è stato possibile rilevare una sovrapposizione tra le anomalie nei valori monitorati e la presenza del virus. A Wuhan, epicentro dell’epidemia, il tasso di infezioni previsto da Huami ha raggiunto il picco massimo intorno al 28 gennaio, cinque giorni dopo il lockdown. Per quanto permangano dubbi sull’affidabilità del sistema, l’idea di sfruttare i dispositivi wearable ha fatto breccia anche a Stanford, dove un team di ricercatori sta portando avanti un progetto analogo in tandem con Fitbits. [fonte: Abacus]
Sposarsi con il riconoscimento facciale
Dalla fine di settembre, chi vorrà sposarsi a Xi’an potrà farlo direttamente con il riconoscimento facciale. A riportarlo è il quotidiano locale Hua Shang Daily, stando al quale terminali equipaggiati con tecnologia AI permetteranno di registrare l’unione e ottenere il certificato di matrimonio scansionando il proprio volto o un documento d’identità. La documentazione digitale verrà conservata nel sistema. Un progetto pilota analogo era stato condotto lo scorso anno nella città di Chengdu al fine di velocizzare le pratiche e migliorare l’efficienza dei servizi. Ora con l’epidemia in corso, la nuova tecnologia permetterà anche di ridurre il contatto umano. [fonte: SCMP]
Hong Kong: l’inchiesta dell’IPCC scagiona la polizia
L’Independent Police Complaints Council ha terminato le indagini sulla condotta delle forze dell’ordine durante le proteste antiestradizione dello scorso anno. Il risultato, contenuto in un rapporto di 189 pagine presentato questa mattina alla chief executive Carrie Lam, riconosce “carenze” nella risposta della polizia in sei circostanze controverse, tuttavia ha affermato di non aver trovato prove di collusione con i criminali accusati di aver assalito manifestanti e passeggeri nella metro di Yuen Long lo scorso 31 agosto. La credibilità dell’IPCC è stata più volte messa in discussione dagli esperti, soprattutto dopo la defezione di cinque consulenti stranieri. Facendo un bilancio dei mesi di protesta, il rapporto ammette che “l’immagine della polizia ha perso il suo prestigio e la città di Hong Kong ha perso la sua meritata reputazione di città pacifica. L’aspetto più scoraggiante è il trauma psicologico che la violenza ha provocato, in particolare nelle menti dei giovani.”[fonte HKFP]
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Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.