Nonostante la risposta cinese alle tariffe americane, le due parti si dicono ancora ottimiste. “Qualcosa potrebbe succedere” quanto Trump e Xi Jinping si incontreranno il prossimo in Giappone per il G20. “Penso sarà un meeting molto fruttuoso” ha commentato Trump a stretto giro dall’imposizione di dazi tra il 5 e il 25% su 5140 prodotti statunitensi. Ma Pechino non ha mancato di riaffermare più volte in questi ultimi giorni che il raggiungimento di un accordo commerciale è possibile solo se verrà preservata la “dignità” e la “sovranità” di entrambi i paesi. Dando voce al punto di vista cinese, il ministro degli Esteri Wang Yi ha affermato che “finché questi negoziati saranno in linea con la riforma, l’ apertura e la fondamentale esigenza della Cina per uno sviluppo di alta qualità, e in linea con gli interessi comuni e di lungo periodo dei popoli cinese e americano, i negoziatori di entrambi i paesi hanno la capacità e la saggezza di risolvere reciprocamente le ragionevoli richieste e alla fine raggiungere un accordo vantaggioso per entrambe le parti” [fonte: Reuters, Reuters]
Amnesty cacciato dagli uffici newyorkesi
Quando Amnesty International U.S.A ha iniziato a cercare una nuova sede a New York, il gruppo per la difesa dei diritti umani ha scelto un modesto grattacielo di Lower Manhattan, noto come Wall Street Plaza. Ma proprio mentre l’organizzazione si accingeva a firmare il contratto di affitto la settimana scorsa, il proprietario dell’edificio ha detto che la sua nuova casa madre, il gigantesco conglomerato marittimo di proprietà del governo cinese Cosco, ha deciso di porre il veto all’offerta. Amnesty – ha spiegato Orient Overseas Associates – non è esattamente “il migliore inquilino” per un’azienda statale cinese. Nel 2017, Cosco Shipping ha acquisito Orient Overseas in un affare da 6,3 miliardi di dollari che lo ha reso uno dei maggiori operatori di spedizioni marittime di container al mondo e una delle più grandi società di importazione di spedizioni negli Stati Uniti. Di conseguenza gli investimenti immobiliari di Orient, tra cui l’edificio in 88 Pine Street, hanno cambiato proprietà. Mentre le battaglie di Amnesty contro le violazioni dei diritti umani in Cina sembrano la vera causa dello “sfratto”, non è la prima volta che Orient diventa protagonista del braccio di ferro tra Washington e Pechino. Proprio di recente, l’azienda con base a Hong Kong è stata costretta dal Tesoro a rinunciare al terminal container di Long Beach che gestiva da decenni per potenziali rischi alla sicurezza nazionale [fonte: NYT]
Finanziamenti cinesi in soccorso della disoccupazione in Sri Lanka
In poco più di vent’anni l’area incontaminata a sud del distretto finanziario di Colombo, la capitale dello Sri Lanka, vedrà sorgere la nuova Port City Colombo, una nuova metropoli che si estenderà su una superficie di 665 acri, frutto di un ambizioso progetto finanziato con denaro cinese. In concerto si diffonde sempre più il dissenso tra la popolazione locale, fortemente preoccupata dal debito accumulatosi con Pechino nel corso degli ultimi anni e culminato con la costruzione del porto di Hambantota. Il progetto prevede la costruzione di un’area delle dimensioni del centro di Londra che andrà a raddoppiare l’attuale dimensione di Colombo. Il modellino di Port City mostra un paesaggio urbano simile alle principali città asiatiche come Hong Kong e Singapore, ricche di torri scintillanti, hotel di lusso, centri commerciali, parchi e canali che lasciano spazio ad unità abitative lussuose. Una volta completata, l’area accoglierà 80.000 persone, con più di 250.000 pendolari ogni giorno. Port City, parte della più estesa Belt & Road Initiative, è il più grande investimento diretto estero nella storia dello Sri Lanka. Sarà infatti finanziato con un prestito di 1,4 miliardi di dollari emesso dalla China Communications Construction Company, gigantesca impresa statale al centro delle opere infrastrutturali della BRI. Il progetto mira a risolvere un problema che ha perseguitato a lungo lo Sri Lanka, ovvero una disoccupazione dilagante che costringe più di 200,000 persone a lasciare l’isola ogni anno alla ricerca di un’occupazione. A ciò si somma un’economia affossata da una guerra civile durata 26 anni con un costo economico di circa 200 miliardi di dollari [fonte: Scmp]
Il Sud-est asiatico accoglie Huawei a braccia aperte
La Malesia è solo l’ultima di una serie di nazioni del sud-est asiatico ad aver accolto Huawei, la più grande compagnia di telecomunicazioni al mondo, disinteressandosi degli avvertimenti degli Stati Uniti che vedono nella compagnia cinese un grave pericolo alla sicurezza nazionale. La regione sta divenendo sempre più un campo di battaglia chiave in una guerra tra Stati Uniti e Cina per la diffusione della rete 5G, definita dagli esperti come una tecnologia in grado di aprire la strada a scoperte in ogni campo, dall’intelligenza artificiale alla creazione di smart city. Se in Occidente Washington sta avendo la meglio, con i paesi parte dell’alleanza di intelligence Five Eyes – Canada, Regno Unito, Australia e Nuova Zelanda – che sono già corsi ai ripari per limitare la penetrazione di Huawei nelle rispettive economie, al contrario, nel Sud-est asiatico Huawei stima che ci saranno oltre 80 milioni di clienti entro il 2020 e 1.200 miliardi di dollari di opportunità commerciali nei prossimi cinque anni. La Tailandia spera di implementare un servizio 5G guidato da Huawei entro il prossimo anno e sta già portando avanti una ricerca congiunta con l’azienda nel distretto hi-tech di Sriracha. Il servizio M1 di Singapore, il Maxis della Malesia e il Telkomsel indonesiano hanno tutti aderito ad effettuare primi test delle tecnologie prodotte dalla compagnia cinese mentrea le Filippine implementeranno un servizio sponsorizzato da Huawei con il supporto del principale provider locale di reti wireless Globe Telecom nella seconda metà del 2019 [fonte: Scmp]
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