Se l’obiettivo delle tariffe doveva essere quello di costringere le multinazionali a lasciare la Cina per gli Stati Uniti, la missione non si può dire esattamente soddisfacente. Secondo la Camera di commercio europea, negli ultimi 12 mesi la maggior parte delle aziende del Vecchio Continente è riuscita a limitare le ripercussioni della trade war sul proprio business, delocalizzando in altri paesi asiatici. Stando al sondaggio, delle 174 imprese intervistate solo l’8% degli ha dichiarato di aver spostato le proprie attività fuori dalla Cina a causa delle tariffe, mentre il 6% ha affermato di aver già aumentato gli investimenti nel paese o di avere intenzione di farlo. A gennaio, durante la precedente indagine, era stato solo il 2%. Il rapporto conclude che, come conseguenza dei dazi, “le aziende più grandi sono costrette ad assumere costi marginali, mentre quelle più piccole finiscono per passare i costi [ai consumatori], per pagarli di propria tasca, o per decidere di cambiare fornitore”. [fonte: Bloomberg]
Xinjiang: verso una normalizzazione dei centri detentivi
Nuovi aggiornamenti dal Xinjiang. Questa volta si tratta di informazioni ufficiali. “Al momento gli studenti che hanno partecipato [al training nei campi di rieducazione] … si sono tutti laureati”. A parlare è il governatore della regione autonoma Shohrat Zakir (di etnia uigura) secondo il quale “con l’aiuto del governo, [gli internati] hanno ottenuto un’occupazione stabile e la loro qualità della vita è migliorata”. Il programma di “formazione” continuerà in futuro tenendo conto della “volontà indipendente” degli “studenti” e concedendo loro la “libertà di andare e venire”. Stando a Zakir, le strutture saranno aperte ai dirigenti scolastici disoccupati, ai membri del partito nelle aree rurali, agli agricoltori e ai pastori per una formazione “quotidiana, normale e aperta”. Le dichiarazioni del governatore seguono una serie di leak molto dettagliati sul sistema della rieducazione e la sua natura coercitiva. A sostegno della tesi ufficiale, nel weekend la versione internazionale dell’emittente statale CCTV ha trasmesso il primo documentario sulla guerra al terrorismo condotta da Pechino nel Xinjiang a partire dal 2014. L’offensiva mediatica punta a bilanciare le accuse di Stati Uniti ed Europa proprio mentre a Capitol Hill si discute l’introduzione di una legge per punire le violazioni dei diritti umani nella regione. {fonte: Reuters]
Libri al rogo come Qin Shi Huangdi
Come il primo imperatore cinese Qin Shi Huangdi. Una contea della provincia del Gansu è balzata ai disonori della cronaca per aver dato alle fiamme dei libri “illegali” e dal contenuto religioso. Il rogo, immortalato in una foto diventata virale, è avvenuto davanti alla biblioteca locale il 22 ottobre e coinvolge 65 testi rinvenuti dallo staff durante un controllo dell’archivio. La dubbia iniziativa ha suscitato la reazione indignata di stampa e social media. Nella blogosfera impazzano i paragoni tra quanto accaduto a Zhenyuan e la distruzione dei libri voluta dall’imperatore Qin nel 213 a.C. per unificare il paese ideologicamente, a cui ha fatto seguito un anno più tardi la purga di 460 studiosi confuciani sepolti vivi. Mentre il controverso episodio potrebbe essere attribuibile a un’iniziativa locale, da quando Xi Jinping è diventato presidente il controllo sulla libertà di espressione negli ambienti intellettuali è diventato più massiccio. Solo una settimana prima, il Ministero della Pubblica Istruzione aveva invitato tutte le scuole primarie e secondarie del paese a controllare le loro biblioteche e a eliminare eventuali titoli illegali [fonte: SCMP]
Fidanzati virtuali per le donne in carriera cinesi
Un ragazzo a noleggio dall’altra parte del telefono cellulare: è questa la nuova tendenza che sta prendendo piede tra le donne cinesi. Infatti, sono ormai sempre di più le donne in carriera a ricorrere a WeChat o Taobao per noleggiare “fidanzati virtuali”. I servizi spaziano dai messaggi di testo alle chiamate quotidiane, in base alle esigenze e ai gusti del cliente. Ovviamente, a seconda delle prestazioni varia anche il prezzo del servizio: si parte da pochi yuan per mezz’ora di sms a qualche migliaio per noleggiare un ragazzo che effettui chiamate quotidiane per un mese intero. Secondo Chris Tan, professore all’Università di Nanjing, questa “mercificazione dell’affetto” è stata causata dal ruolo che il matrimonio tradizionale e la politica del figlio unico hanno svolto all’interno della società cinese. Stando all’esperto, avendo un unico erede, molte famiglie hanno cresciuto la propria figlia con valori tradizionalmente considerati maschili, come la stabilità finanziaria e il successo professionale. Fattore che, unito alla forte urbanizzazione e alla rigida cultura del lavoro, ha portato allo sviluppo servizi che permettano alle donne single di soddisfare virtualmente i loro bisogni emotivi pur continuando a perseguire una carriera professionale di successo. [fonte: StraitsTimes]
Giappone: nuovi documenti riaccendono il dibattito sulle confort women
Nuovi documenti ufficiali fanno luce sul coinvolgimento del governo nipponico nello sfruttamento delle cosiddette “donne di conforto”, le schiave del sesso costrette a lavorare nei bordelli militari durante il periodo dell’occupazione giapponese in Cina. Secondo i dispacci, negli anni ’30, l’esercito chiese al ministero degli Esteri giapponese di fornire sei donna ogni 70 soldati. Un comunicato del consolato generale di Qingdao sostiene che l’invasione giapponese abbia causato un aumento della prostituzione nell’area con l’arrivo di 101 “geishe” e 110 donne di conforto dal Giappone, oltre a 228 “schiave” dalla Corea. Almeno 500 invece quelle richieste dal console di Jinan per fornire servizi sessuali in previsione dell’arrivo di nuovi soldati. Le testimonianze, riportate da Kyodo News, riaccendono il dibattito su una delle pagine della storia nipponica più controverse. Nonostante il mea culpa con cui nel 1993 Tokyo ha ammesso le proprie colpe, in Corea del Sud la questione è ancora motivo di astio nei confronti del vicino asiatico.[fonte: Guardian]
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Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.