“Non vogliamo la dittatura militare. Vogliamo la democrazia”. Sono queste le parole intonate dalle decine di migliaia di persone che da tre giorni si riversano nelle strade di Yangon per manifestare contro il colpo di stato militare di lunedì scorso, che ha portato all’arresto di Aung San Suu Kyi e degli altri dirigenti della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD). Questa mattina, nella capitale Naypyidaw, la polizia ha utilizzato cannoni ad acqua contro i manifestanti, sebbene le misure adottate siano ancora molto blande se paragonate alla la violenza con cui furono represse le marce nel 1988 e nel 2007. Nel weekend, le manifestazioni si sono svolte anche in più di una dozzina di altre città e dappertutto i cittadini hanno indossato camicie rosse per omaggiare Suu Kyi, mentre le auto e gli autobus rallentavano per suonare i clacson in appoggio ai manifestanti. Molti hanno salutato sollevando le tre dita, un simbolo di sfida contro l’autoritarismo nella regione utilizzato anche dagli attivisti in Thailandia. L’arresto di Internet imposto dai militari è stato ripristinato dopo ben 24 ore, ma ciò non ha frenato i cittadini, che hanno marciato verso la Pagoda di Sule nel centro della città, mentre i veicoli della polizia e gli agenti in tenuta antisommossa erano di stanza vicino all’Università di Yangon. Le proteste di domenica sono state le più grandi dalla cosiddetta rivoluzione dello zafferano nel 2007, quando migliaia di monaci del paese si ribellarono contro il regime militare. Proteste minori si sono svolte anche a Nay Pyi Daw, Mawlamine e Mandalay, la seconda città più grande del paese. Non ci sono stati episodi di violenza, ma nella città di Myawaddy ci sono state segnalazioni di colpi d’arma da fuoco senza però nessun ferito. Mentre i cittadini reclamano con vigore la fine della dittatura militare e la liberazione di Suu Kyi, i gruppi di difesa dei diritti umani tengono gli occhi puntati sul paese, ed il relatore speciale delle Nazioni Unite sul Myanmar, Tom Andrews, ha invitato il Consiglio per i diritti umani dell’ONU a convocare una sessione speciale sulla “crisi in atto”, richiedendo altresì la dimissione immediata della giunta militare. Per quanto riguarda invece la ripresa di internet, il gruppo di monitoraggio NetBlocks Internet Observatory ha affermato che la connettività è salita a circa il 50% alle 14:00 di domenica ora locale (07:30 GMT) ma l’accesso ai social media, inclusi Facebook e Twitter, è rimasto bloccato. [fonte Reuters BBC]
OMC: la coreana Yoo Myung-hee si ritira dalla corsa, si fa strada Ngozi Okonjo-Iweala
Yoo Myung-hee, la candidata sudcoreana a guidare l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), ha annunciato ritiro della sua candidatura, aprendo di fatto la porta a Ngozi Okonjo-Iweala – ex ministra delle finanze della Nigeria – per diventare il primo leader africano e di sesso femminile dell’OMC. Okonjo-Iweala era stata raccomandata dai massimi funzionari dell’OMC per guidare l’organo di Ginevra in ottobre, ma la nomina era stata bloccata dagli Stati Uniti di Trump, sostenitori di Yoo. La cittadina nigeriana e statunitense Okonjo-Iweala, sponsrizzata da Cina, Unione Europea e Giappone, ha incassato il supporto dell’amministrazione Biden. L’aspettativa è però che non ci sarà alcuna nomina di direttore generale fino a quando il prossimo Segretario al Commercio degli Stati Uniti non avrà preso le sue funzioni, cosa che potrebbe avvenire nelle prossime settimane. Fino ad allora, la leadership di Okonjo-Iweala non sarà confermata, in quanto necessita dell’approvazione dei 164 membri dell’OMC, ma senza un candidato alternativo la sua nomina sembrerebbe essere una formalità, ponendo così fine a una lunga battaglia di candidati che indebolirebbe l’OMC in un momento in cui il sistema commerciale globale è stato irto di tensioni geopolitiche. Il prossimo direttore generale sostituirà il brasiliano Roberto Azevedo, dimessosi a fine agosto, un anno prima della fine del suo secondo mandato. [fonte SCMP]
La Cina aggiunge più di 500 specie all’elenco di protezione della fauna selvatica
La Cina ha aggiunto 517 specie alla sua lista di animali selvatici protetti, come parte della sua campagna per porre fine al commercio di animali selvatici e alla distruzione degli habitat. Nella dichiarazione rilasciata congiuntamente dai ministeri delle foreste e dell’agricoltura, il governo cinese ha affermato che l’aggiornamento della lista – che ora include ben 980 specie di animali selvatici – è diventato “estremamente urgente”, soprattutto a causa dell’inesorabile diminuzione della varietà di fauna selvatica in Cina. Accanto all’ampliamento della lista di specie protette, i ministeri hanno promesso di lavorare con i governi locali per identificare e proteggere gli habitat degli animali ed hanno indurito le pene contro i bracconieri ed i trafficanti: oltre che salatissime multe, pene detentive sono previste per i cacciatori di specie protette di primo livello – tra cui il panda, il pangolino e la focena senza pinne dello Yangtze. Gli sforzi cinesi per reprimere il commercio di fauna selvatica si sono intensificati a partire da gennaio 2020, dopo che i primi casi di COVID-19 sono stati collegati a un mercato di pesce nella città di Wuhan, noto per la vendita di specie animali esotici. Infatti, già a febbraio scorso il parlamento cinese aveva annunciato l’intenzione di attuare un divieto permanente a livello nazionale sul commercio e il traffico di specie selvatiche, lasciando però impunito l’allevamento in cattività di animali da pelliccia o utilizzati nella medicina tradizionale cinese. Tuttavia, le norme di salvaguardia della fauna selvatica sembrerebbero aver sortito i primi effetti: secondo i dati ufficiali, nei primi nove mesi del 2020, la Cina ha perseguito più di 15.000 persone per crimini contro la fauna selvatica, un aumento del 66% rispetto allo stesso periodo dell’anno prece. [fonte Reuters]
Cina: addio allo smartphone in classe
Le autorità cinesi hanno vietato l’uso dei cellulari nelle aule e nei cortili scolastici con effetto immediato, con l’obiettivo di “proteggere la vista degli studenti e farli concentrare sullo studio”. La nuova regola, emanata dal ministero dell’Educazione, si applicherà a tutti gli studenti cinesi ed anche ai docenti, a cui sarà proibito usare i telefoni cellulari per dettare i compiti oppure chiedere agli studenti di finire i compiti sui loro dispositivi, pratica che stava guadagnando popolarità negli ultimi anni. L’uso degli smartphone nelle scuole è da molto tempo oggetto di dibattito in Cina, non solo da parte di genitori, ma anche di attivisti preoccupati per la dipendenza digitale dei giovani. In un sondaggio di thecover.cn pubblicato su Weibo, il 54% degli oltre 1.900 intervistati ha affermato di ritenere che non fosse necessario per i bambini in età scolare portare i telefoni a scuola, mentre oltre il 25% desiderava una politica più flessibile. Il 20% ha affermato che dovrebbe essere consentito negli stabilimenti scolastici. Tra i principali detrattori del sistema “a taglia unica” vi sono molti docenti che ritengono che, sebbene sia accettabile vietare ai bambini della scuola primaria di portare i telefoni cellulari a scuola, agli studenti più grandi dovrebbe esserne consentito l’utilizzo, soprattutto dato il contesto estremamente digitalizzato a cui dovranno far riferimento una volta entrati nel mondo del lavoro. L’uso del telefono cellulare nelle scuole non ha acceso il dibattito solo in Cina ma anche in paesi come Francia e Grecia. Nel 2018, il governo francese ha approvato – con 62 voti a favore ed 1 contro- una legge che vieta i telefoni cellulari all’interno del cortile della scuola per i minori di 15 anni. La Grecia ha seguito l’esempio, vietando l’uso del cellulare in tutte le scuole materne, elementari e medie a partire da settembre 2018. [fonte Inkstone]
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Classe ’94, valdostana, nel 2016 si laurea con lode in lingua cinese e relazioni internazionali presso l’Università cattolica del sacro cuore di Milano. Nonostante la sua giovane età, la sua passione per la cultura cinese e le lingue la portano a maturare 3 anni di esperienza professionale in Italia, Svezia, Francia e Cina come policy analyst esperta in Asia-Pacifico e relazioni UE-Cina. Dopo aver ottenuto il master in affari europei presso la prestigiosa Sciences Po Parigi, Sharon ora collabora con diverse testate italiane ed estere, dove scrive di Asia e di UE.