Nel pieno di agosto, la visita a Taipei del segretario alla Sanità Alex Azar, il funzionario americano di rango più elevato a visitare l’isola dal 1979, è parsa avviare un nuovo corso delle relazioni tra Stati Uniti e Taiwan. Passato è il tempo in cui a fare notizia era la vendita di forniture militari. L’amministrazione Trump sembra sempre più decisa a promuovere il partenariato a livelli senza precedenti. La conferma è arrivata ieri per bocca di David Stilwell, assistente del segretario di Stato per l’Asia Orientale e il Pacifico, stando al quale Washington e Taipei istituiranno una nuova piattaforma di dialogo per “esplorare l’intero spettro delle nostre relazioni economiche: semiconduttori, sanità, energia e oltre, con la tecnologia al centro.” L’annuncio, che arriva a stretto giro dalla rimozione delle restrizioni taiwanesi sull’import di carne americana, dà concretezza all’ipotesi – ventilata da Azar – che i due paesi riescano in futuro a raggiungano un accordo di libero scambio. Contestualmente, la rappresentanza diplomatica statunitense sull’isola ha reso pubbliche per la prima volta le “sei assicurazioni”, i sei principi chiave della politica estera degli Stati Uniti stabiliti nel 1982 dall’amministrazione Reagan – e secretati – con lo scopo di garantire che gli Usa avrebbero continuato a sostenere Taiwan anche in assenza di relazioni diplomatiche formali. Almeno ufficialmente, non si tratta di una rottura rispetto alla “One-China Policy”. Ma gli ultimi sviluppi sono risuonati oltre la Muraglia come tamburi di guerra e alle usuali minacce della stampa cinese da Taipei hanno risposto con la pubblicazioni di un report in cui viene radicalmente ridimensionato il pericolo di un attacco dalla mainland. Nonostante il potenziamento degli apparati militari cinesi, secondo il ministero della Difesa, l’esercito popolare di liberazione non ha ancora le capacità logistiche per affrontare il territorio dell’isola.
In queste stesse ore la questione taiwanese sta creando qualche problema anche alle relazioni con il Vecchio Continente. La visita del ministro degli Esteri Wang Yi in Europa – costellata di ostacoli – si è conclusa a Berlino con una strigliata di Heiko Maas. Il capo della diplomazia tedesca ha preso pubblicamente le parti del presidente del Senato ceco e del sindaco di Praga in missione sull’isola con una folta delegazione dopo che Wang ha promesso di ripagare l’affronto con imprecisate ritorsioni. Lungi dal desistere davanti alle invettive di Pechino, Taipei è sempre più decisa a rivendicare il proprio status sul proscenio internazionale. Proprio questa mattina, il ministro degli Esteri Joseph Wu ha annunciato che a gennaio verranno messi in circolazione nuovi passaporti in cui la dicitura in inglese “Republic of China” sarà ridimensionata per dare maggiore visibilità all’inequivocabile “Taiwan”. [fonte: Reuters, Reuters, Reuters, Reuters]
Il 60-70% dell’export cinese aggira Hong Kong
E’ la più grande ma anche la più povera delle città della Greater Bay Area, la megaregione nel delta del fiume delle Perle con cui Pechino mira a integrare Hong Kong alla terraferma. Stiamo parlando di Zhaoqing, la città dove visse per molti anni il gesuita Matteo Ricci prima di trasferirsi a Pechino. Come spiega al SCMP, Tom Chan Pak-lam, presidente dell’Hong Kong Institute of Securities Dealers, “Zhaoqing è la città più sottosviluppata tra le 11 della GBA, ma ha anche il margine di crescita maggiore tra tutte, potendo contare su bassi costi e vaste aree rurali ancora illibate. Con un’estensione di 15.056 kmq, Zhaoqing rappresenta il 27% della superficie della baia, pari a 13 Hong Kong e 456 Macao. Ma la sua economia vale appena 32 miliardi di dollari l’8 per cento del pil di Shenzhen. Secondo gli esperti, sarà proprio Zhaoqing ad attrarre buona parte degli investimenti infrastrutturali nell’ambito del ciclopico quanto controverso progetto che – stando a molti – rischia di ridimensionare il ruolo della riottosa Hong Kong. Proprio ieri fonti del Global Times hanno rivelato che il 60-70% dell’export cinese un tempo transitante attraverso l’ex colonia britannica ormai prende il largo direttamente dalla provincia del Guangdong, il centro nevralgico della nuova megaregione. [fonte SCMP, Global Times]
Pechino sfoltisce la “città interna”
Pechino cambia, Pechino si trasforma. Chi conosce bene la capitale cinese sa come l’aforisma di Eraclito “panta rei” rispecchi più che mai l’impermanenza della sua conformazione urbana. Nel weekend la stampa statale ha annunciato un ulteriore restyling definito dagli esperti come la fase conclusiva del progetto lanciato nel 2017 per decongestionare la megalopoli, delocalizzando parte delle sue funzioni nei nuovi centri amministrativi di Xiongan e Tongzhou. L’obiettivo conclamato è quello di rendere la capitale più funzionale. Secondo l’ultima roadmap, il piano prevede una riduzione graduale del numero dei residenti nella “città interna” (l’area un tempo racchiusa dalla vecchia cinta muraria) a 1,7 milioni entro il 2035 e a 1,55 milioni entro il 2050, così che chi riuscirà a restare potrà usufruire di cure sanitarie migliori, mentre scuole e servizi per gli anziani saranno raggiungibili a piedi. Sulla carta il progetto ha una sua logica ma, come in altre circostanze simili, la sua realizzazione potrebbe penalizzare i segmenti sociali più disagiati. A partire dai lavoratori migranti (mingong), che costituiscono il 35% della popolazione locale. Secondo uno studio del Beijing Social Work Development Centre for Facilitators, a livello nazionale, il numero dei mingong decisi a restare nelle città d’adozione è quasi raddoppiato dal 35,3% dell’annus horribilis 2007-2008 all’attuale 63,35%. [fonte SCMP, SCMP, Xinhua]
La trilogia di Liu Cixin su Netflix
I creatori di Game of Thrones David Benioff e DB Weiss porteranno su Netflix la saga dello scrittore di fantascienza cinese Liu Cixin. A finire sul piccolo schermo sarà la trilogia Three Body, fiore all’occhiello della produzione del maestro dello sci-fi cinese, che vanta tra i propri fan anche Barack Obama, Elon Musk e Mark Zuckerberg. L’accordo vale 200 milioni di dollari. [fonte: Guardian]
La Mongolia Interna protesta contro l’insegnamento in lingua cinese
Migliaia di persone protestano da giorni fuori dalle scuole della Mongolia Interna contro nuove misure che minacciano di rimpiazzare il mongolo con il mandarino come lingua d’insegnamento alle elementari e alle medie. Una policy che ricorda quanto già attuato in Tibet e Xinjiang con analoghe resistenze popolari. Lunedì mattina, le autorità locali hanno cercato di rassicurare i genitori promettendo di limitare le modifiche a sole tre materie (lingua e letteratura, politica e storia), lasciando invariate per tutte le altre materie libri di testo, lingua d’insegnamento così come il numero di ore dedicate all’apprendimento del mongolo e del coreano, un’altra lingua minoritaria parlata nella regione autonoma. Le manifestazioni, iniziate alla fine della scorsa settimana, rappresentano la più agguerrita forma di dissenso messa in atto nella Mongolia Interna dal 2011, quando la morte di due mongoli per mano di un camionista han trascinò in strada migliaia di persone. Sebbene il cambio di rotta abbia finalità soprattutto economiche (integrando le minoranze etniche nel mercato cinese), più in generale, con l’arrivo di Xi Jinping ai vertici di Zhongnanhai l’insegnamento in chiave “patriottica” ha acquisito nuova importanza nell’agenda politica di Pechino.[fonte: NYT]
China Files propone alle aziende italiane interessate alla Cina servizi di comunicazione quali: newsletter, aggiornamenti su specifici settori, oltre a progetti formativi e approfondimenti ad hoc. Contattaci a info@china-files.com
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.