In Cina e Asia — Taiwan riconosce il matrimonio gay

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La nostra rassegna sino-asiatica di oggi


Taiwan primo paese asiatico a riconoscere il matrimonio gay

Mercoledì, il Consiglio dei Grandi Giudici di Taiwan ha definito l’attuale divieto del matrimonio gay “incostituzionale” e ha chiesto una revisione del codice civile entro due anni. Precisando che, il mancato rispetto della scadenza da parte dei legislatori, non costituirà un ostacolo per le coppie omosessuali, che potranno ugualmente registrasi localmente sulla base della nuova interpretazione. La sentenza, sollecitata dal caso dell’attivista Chi Chia-wei, rende Taiwan il primo paese asiatico a riconoscere le unioni tra persone dello stesso sesso e corona circa venti anni di campagne per l’ottenimento di pari diritti. Centinaia di persone, riunitesi davanti al parlamento, hanno salutato la decisione dei giudici con felicità e commozione. Di contro, una manifestazione di protesta davanti ai palazzi di giustizia ha dato voce alla corrente conservatrice che ha condannato la decisione “unilaterale” della corte. A guidare l’opposizione c’è la comunità cristiana. Lo scorso novembre 20mila credenti sono convogliati davanti allo Yuan legislativo per opporsi alla revisione della legge sul matrimonio. Il prossimo passo pare essere la richiesta di un referendum popolare per saggiare la risposta della pancia del paese.

Prima operazione di ‘freedom of navigation’ dell’era Trump in acque cinesi

Per la prima volta dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, la marina americana ha effettuato la prima operazione di ‘freedom of navigation’ nelle isole contese del Mar cinese meridionale. Funzionari americani avrebbero confermato alla Reuters, che la USS Dewey avrebbe navigato entro le 12 miglia nautiche dal Mischief Reef, una delle formazioni delle isole Spratly, — contese con Vietnam, Filippine, Malesia, Taiwan e Brunei che la Cina dice di aver fortificato con scopi difensivi. L’ultima esercitazione del genere risaliva a ottobre, quando la presidenza americana era ancora nelle mani di Obama. Da allora diverse voci si sono rincorse sua presunta frustrazione tra la marina americana, intenzionata a proseguire le attività in difesa della libera navigazione in acque territoriali cinesi ma bloccata dalla Casa Bianca, ultimamente presa da un delicato balletto diplomatico con Pechino, che ha come obiettivo finale il raggiungimento di un accordo sulla Corea del Nord. Nelle stesse ore in cui la stampa internazionale riportava la notizia dell’incursione americana nel Ma cinese, il ministero del Commercio cinese preannunciava nuove importazioni del Made in Usa, nella cornice dell’accordo commerciale raggiunto durante la visita di Xi Jinping in Florida. Nei prossimi 5 anni l’import dovrebbe raggiungere gli 8 trilioni di dollari, ha dichiarato il dicastero in un comunicato che precede di pochi giorni un nuovo round di colloqui nell’ambito del piano di 100 giorni avviato ad aprile per riequilibrare la bilancia commerciale tra i due paesi.

I contatti del maverick Guo Wengui arrivano fino a Tony Blair

Guo Wengui, il tycoon vicino ai servizi segreti cinesi che negli ultimi tempi ha fatto tremare la leadership comunista rivelando alla stampa indiscrezioni sulla campagna anticorruzione di Xi Jinping, vanterebbe stretti contatti con l’ex premier britannico Tony Blair. A rivelarlo è un’inchiesta del magazine Caixin, secondo la quale, grazie ai contatti di Blair in Medio Oriente, Guo sarebbe riuscito a ottenere 3 miliardi di dollari dalla famiglia reale di Abu Dhabi. Il denaro sarebbe servito ad acquisire il controllo di Haitong Securities, la seconda principale società di investimento cinese dopo CITIC. Un investimento terminato in ingenti perdite (a causa del tracollo dei mercati borsistici del 2015) per l’imprenditore, fuggito alcuni anni fa negli Stati Uniti, quando un’inchiesta sempre di Caixin lo ha accusato di aver oliato il proprio business cospirando con alcuni alti funzionari del Partito comunista. La sua storia è rimasta lontano dai riflettori fino a quando nel mese di febbraio Guo non ha deciso di rompere il silenzio per fare i nomi del malaffare che divora l’establishment cinese arrivando a puntare il dito contro Wang Qishan, capo del Comitato anticorruzione e membro del Comitato permanente del Politburo, il ghota del potere politico cinese. Su richiesta di Pechino, ad aprile l’Interpol ha spiccato un mandato d’arresto internazionale contro di lui.

Placet di Trump alla campagna antidroga di Duterte

Ormai non passa giorno senza che la stampa internazionale venga in possesso di frasi scottanti proferite da Donald Trump nel corso di conversazioni riservate con capi di stato e e alti funzionari esteri. Gli ultimi leakes, riportati da Washington Post, farebbero riferimento a una conversazione telefonica avuta con il presidente filippino Rodrigo Duterte il 29 aprile, un giorno dopo aver dichiarato ai microfoni di Bloomberg di essere ben disposto a incontrare Kim Jong-un. Chiedendo un parere a Duterte, Trump si sarebbe lasciato andare con una descrizione non proprio lusinghiera del leader nordcoreano, definito “un pazzo” munito di armi nucleari. “Abbiamo una potenza di fuoco 20 volte superiore alla loro ma non vogliamo utilizzarla”, avrebbe aggiunto l’inquilino della Casa Bianca. La telefonata sarebbe stata occasione per un controverso apprezzamento alla campagna antidroga lanciata da Duterte, durante la quale hanno già perso la vita 9000 persone. Tanto che il “Giustiziere” sarebbe stato più volte invitato a visitare lo Studio Ovale. I toni confidenziali della conversazione sembrano suggerire l’esistenza di rapporti amichevoli tra i due paesi, nonostante il debole del leader filippino per la Cina e la sua conclamata volontà di affrancare il paese asiatico dall’alleato statunitense.