Taiwan ha accusato Pechino di voler ostacolare la campagna vaccinale sull’isola democratica. Secondo quanto affermato stamattina dal ministro della Sanità, Taipei stava per concludere un accordo con la BioNTech lo scorso dicembre per la fornitura di 5 milioni di dosi, ma a causa di “pressioni politiche esterne” la distribuzione è stata sospesa. “C’è qualcuno che non vuole vedere Taiwan troppo felice”, ha spiegato il funzionario senza precisare l’identità del sabotatore. Ma non è troppo difficile indovinare a chi si riferisca. BioNTech ha raggiunto un’intesa con la società cinese Shanghai Fosun Pharmaceutical Group Co Ltd per la produzione e la commercializzazione in via esclusiva di vaccini anti-COVID-19 sviluppati utilizzando la tecnologia mRNA nella Cina continentale, a Hong Kong, Macao e Taiwan. Nonostante l’ottima gestione epidemica, lo scorso anno il pressing cinese era già costato l’emarginazione di Taipei dall’Assemblea mondiale della sanità.[fonte Bloomberg, Reuters]
Myanmar: la Cina condanna velatamente il golpe
Quello che sta accadendo in Myanmar non è assolutamente quanto “la Cina vorrebbe vedere”. Lo ha riferito ieri l’ambasciatore cinese nel paese esternando per la prima volta il disappunto di Pechino nei confronti del golpe militare. Il funzionario ha precisato inoltre che la Cina “ha relazioni amichevoli tanto con la Lega nazionale per la democrazia quanto con i militari” e ha definito “ridicole” le insinuazioni secondo le quali la leadership cinese starebbe fornendo supporto tecnico ed armato alla giunta golpista. La scorsa settimana alcuni manifestanti si erano riuniti davanti all’ambasciata cinese di Naypyidaw per protestare contro il presunto coinvolgimento di Pechino. A dare adito alle speculazioni ha contribuito la recente visita nella capitale birmana del ministro degli Esteri Wang Yi, appena tre settimane prima dell’arresto di Aung San Suu Kyi. Ma come spiegavamo di recente, la leadership di Xi predilige la stabilità, prerequisito indispensabile per continuare a fare affari nel paese. Ma le dichiarazioni ufficiali non bastano a rassicurare la comunità internazionale. Il dipartimento di Stato americano ha chiesto a Pechino di svolgere un “ruolo costruttivo” nella crisi birmana e ha condannato l’annuncio di nuove accuse contro Aung San Suu Kyi. La leader della Lnd, arrestata ufficialmente per aver violato le leggi nazionali sull’import, dovrà ora rispondere a un ulteriore capo d’ìmputazione per aver trasgredito le misure sanitarie anti-Covid. Il processo della Signora è cominciato ieri in segreto. [fonte Reuters, SCMP, NYT]
Gli intrighi di palazzo dietro al caso Ant Group
La stabilità finanziaria, certo. Ma dietro il caso Ant Group potrebbe esserci molto di più. Secondo un’inchiesta del WSJ, poco prima che venisse bloccata la mega ipo un’altra indagine mai resa nota prima aveva messo in luce la complessa struttura proprietaria del gruppo. A spartirsi la partecipazione societaria attraverso veicoli di investimento opachi “c’è una cerchia di figure di potere legate a famiglie politiche in grado di sfidare il presidente Xi e la sua cerchia ristretta.” Affari e politica vanno a braccetto, si sa. Specie in Cina, dove il Partito/Stato ha potere di vita e di morte sull’imprenditoria privata. Commentando la sorte toccata alla “Formica” tempo fa il Nikkei Asia Review spiegava che “la rapida crescita dell’impero economico di Jack Ma è stata a lungo protetta dai suoi legami politici. Nel frattempo, però, gli equilibri di potere sono cambiati. Nonostante il quartier generale di Alibaba sia nel Zhejiang, la provincia dove Xi vanta alleanze di lunga data, il golden boy cinese “ha rapporti relativamente stretti con l’ex presidente Jiang Zemin, il suo vice Zeng Qinghong, e la cosiddetta “cricca di Shanghai”, a cui Xi ha dichiarato guerra appena assunta la guida del partito. Secondo il quotidiano nipponico, non è un caso che Ma abbia lasciato la direzione di Alibaba poco dopo la revisione della costituzione con cui al leader cinese si è assicurato la presidenza sine die. [fonte WSJ, NIKKEI]
Pechino vuole limitare l’export di terre rare. Nel mirino gli F-35
Pechino starebbe pensando di limitare l’export di terre rare con l’obiettivo specifico di colpire l’industria bellica americana. Lo riportano fonti del Financial Times, secondo le quali il ministero dell’Industria e dell’Informazione tecnologica ha avviato uno studio per appurare l’impatto delle restrizioni sulla produzione degli F-35 americani. I jet da combattimento sono realizzati dalla Lockheed Martin, uno dei contractor a cui lo scorso anno Pechino ha comminato imprecisate sanzioni in ritorsione alla vendita di armi a Taiwan. Stando a un rapporto del Congressional Reasearch Service ogni F-35 necessita di 417 kg di terre rare, i minerali – di cui il gigante asiatico detiene l’80% della produzione mondiale – indispensabili nel settore dell’hi-tech e nel comparto militare. Il governo cinese ha cominciato a centellinare l’export nel 2007 per mantenere i prezzi alti e limitare i danni ambientali causati dal processo estrattivo. Ma le misure restrittive – che prevedono multe salate per i trasgressori – potrebbero ripercuotersi con un effetto boomerang contro le aziende cinesi che fino a oggi erano riuscite ad aggirare i paletti senza troppi problemi. Senza contare le potenziali ricadute per le relazioni con Washington all’alba della presidenza Biden. [fonte FT]
L’anticorruzione cinese risparmia le “tigri”
Per la prima volta dall’inizio della campagna anti-corruzione (avviata da Xi Jinping nel 2013), lo scorso anno nessuno dei 200 membri del comitato centrale del Pcc è finito sotto indagine. Secondo quanto riporta il Nikkei Asia Review, la guerra contro i compagni corrotti ha raggiunto un picco nel 2017 – subito prima dell’ultimo Congresso – quando furono arrestati 9 alti funzionari, compreso l’ex segretario del partito di Chongqing, Sun Zhengcai. Da allora, Xi è riuscito ad affidare ai propri protégée ruoli apicali e a sgominare i potenziali rivali politici. Missione compiuta? Neanche per idea. Negli ultimi tempi, le autorità disciplinari hanno lasciato intendere che il mirino dell’anticorruzione è ora rivolto alla Commissione per gli Affari politici e legali, il feudo di Zhou Yongkang, l’ex zar della sicurezza condannato all’ergastolo per corruzione e abuso di potere. [fonte NIKKEI]
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Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.