Raramente le due superpotenze si azzuffano apertamente davanti alle telecamere. E’ quanto invece è successo in queste ore ad Anchorage, in Alaska, dove da ieri i rappresentanti di Washington e Pechino sono impegnati in un agguerrito incontro conoscitivo preceduto da un duello verbale a porte aperte e sotto i riflettori dei media. Durante il primo confronto, durato circa un’ ora, il segretario di Stato Antony Blinken e il consigliere per la Sicurezza nazionale hanno bacchettato la Cina accusandola di violazioni dei diritti umani nonché di rappresentare una minaccia per l’ordine mondiale; il ministro degli Esteri cinese Wang Yi e il membro del Politburo Yang Jiechi hanno risposto puntando il dito contro il decadentismo della democrazia americana, le mire egemoniche di Washington e la strumentalizzazione del concetto di sicurezza nazionale in chiave protezionistica. I delegati statunitensi hanno lamentato la “superbia” degli interlocutori, mentre i media statali cinesi hanno tacciato i funzionari americani di “inospitalità”. L’uno ha accusato l’altro di aver violato il protocollo. Ma dietro il sipario il dialogo sembra essere stato “sostanziale, serio e diretto.” D’altronde lo scopo dell’incontro era quello di annusarsi e mettere in chiaro le priorità di ciascuno. Certo, la Cina ci sperava. Nonostante le smentite americane, i comunicati ufficiali che arrivano da Pechino continuano a parlare di “dialogo strategico di alto livello” lasciando intendere ci sarà un seguito. Pare inoltre che Yang e Wang abbiano con loro una lista di richieste che spaziano dalla rimozione delle restrizioni contro le aziende cinesi alla sospensione delle tariffe commerciali. Un punto su cui la Casa Bianca sembra irremovibile. Per il momento la strategia dell’amministrazione Biden, infatti, non pare discostarsi troppo dalla “massima pressione” di Trump: il meeting di Anchorage è stato preceduto da nuove sanzioni in risposta alla repressione di Hong Kong (peraltro contro gli stessi funzionari già sanzionati da Trump) e le modalità dialettiche continuano a prevedere un uso generoso dei mezzi mediatici. [fonte Reuters, SCMP, WSJ]
Kovrig e Spavor alla sbarra
Si è aperto stamattina nella città di Dandong, al confine con la Corea del Nord, il processo a carico di Michael Spavor, uno dei due canadesi arrestati nel 2018 pochi giorni dopo il fermo in Canada della CFO di Huawei Meng Wanzhou. Spavor è formalmente accusato di aver assistito il connazionale Michael Kovrig (atteso alla sbarra lunedì) nello svolgimento di attività di spionaggio. L’opacità del procedimento giudiziario – durato tre ore – è stato motivo di critiche accese da parte della comunità internazionale. Dieci diplomatici di otto paesi, tra cui uno canadese, si sono visti negare l’accesso all’aula. “Michael [Spavor] è solo un normale uomo d’affari canadese che ha fatto cose straordinarie per costruire legami costruttivi tra il Canada, la Cina e la Repubblica Democratica Popolare di Corea”, ha affermato la famiglia chiedendo il rilascio immediato. La sentenza non è stata ancora resa nota. Non è chiaro se la sovrapposizione temporale tra il processo e il vertice di Anchorage sia voluta. Né se l’esito dei colloqui influenzerà il corso della giustizia cinese. [fonte Guardian]
Deep-fake e riconoscimento vocale nel mirino dei regolatori cinesi
La Cina vuole alzare gli standard per la valutazione di sicurezza delle nuove tecnologie e applicazioni del web che sono dotate di tecnologia deep-fake e software per il riconoscimento vocale. Con una comunicazione diffusa ieri, la Cyberspace Administration of China (CAC) ha reso noto che saranno rafforzati i controlli con lo scopo di salvaguardare la sicurezza nazionale e l’ordine sociale e garantire l’autenticità dei contenuti pubblicati. Secondo le autorità, le nuove misure sono in linea con le recenti normative che riguardano le società e piattaforme web, attive dal settore finanziario alla tecnologia. Un totale di 11 aziende del mondo tecnologico, tra cui Tencent, Xiaomi, Kuaishou, ByteDance, Alibaba, NetEase Music e Ximalaya, sono state convocate per colloqui con le autorità di regolamentazione. Il CAC, insieme ad altre agenzie governative, condurrà un’ispezione nelle sedi aziendali ed esorterà i colossi a rispettare rigorosamente le leggi e i regolamenti pertinenti, al fine di salvaguardare e creare un ecosistema di rete sano e privo di rischi. [fonte Global Times]
Si allarga la campagna contro la corruzione nella Mongolia Interna
Una campagna contro la corruzione nell’industria del carbone della Mongolia Interna è stata estesa a tutti i funzionari nella regione della Cina settentrionale, con indagini che sono partite anche due decenni fa.
Le misure repressive sul fenomeno legato all’industria del carbone sono iniziate circa un anno fa, ma hanno acquisito nuovo slancio questo mese, quando il presidente cinese Xi Jinping ha detto ai deputati regionali, durante il Congresso Nazionale del Popolo, che sarà osservata tolleranza zero per i colpevoli. Secondo gli analisti, Xi ha avviato nella Mongolia Interna una dura repressione del fenomeno corruttivo per rafforzare il controllo del partito nella regione. Secondo i resoconti dei media statali, dal 2018 sono state avviate indagini per circa 676 casi di corruzione relativi all’industria del carbone della regione, con un coinvolgimento di 960 funzionari. Tra le personalità, spiccano Bai Xiangqun, ex vicepresidente del governo della Mongolia interna, e Xing Yun, ex capo della pubblica sicurezza della regione. L’attenzione è massima perché la Mongolia Interna è il secondo più grande produttore di carbone in Cina e rappresenta circa un quarto delle riserve di combustibile del paese, con una produzione che ha raggiunto un miliardo di tonnellate nel 2019. [fonte SCMP]
La Cina avrà difficoltà a raggiungere la neutralità carbonica
Sarà costoso per la Cina raggiungere la neutralità carbonica entro il 2060. Secondo un recente report di Wood Mackenzie, Pechino dovrà spendere 6,4 trilioni di dollari per determinare la capacità di generazione di energia verde necessaria a raggiungere l’obiettivo. Ma gli analisti energetici temono che la Cina non sia all’altezza della fornitura delle principali materie prime necessarie. I progetti di energia solare, eolica e nucleare saranno determinanti per produrre elettricità sufficiente a soddisfare un aumento stimato del 75 per cento della domanda e per sostituire l’energia persa dal taglio delle fonti di combustibili fossili entro il 2060. Oltre al suo obiettivo di neutralità del carbonio, la Cina si è impegnata anche a ridurre entro il 2030 le emissioni di anidride carbonica almeno del 65 per cento, rispetto ai livelli del 2005. Ma dovrà affrontare alcune sfide per assicurarsi le forniture di materie prime difficili da reperire, come rame, alluminio, nichel, cobalto e litio. Invece, secondo uno studio del Center for Global Sustainability dell’Università del Maryland negli Stati Uniti, la Cina, se vuole raggiungere il target ambientale, deve al più presto interrompere la costruzione di nuove centrali elettriche a carbone e chiudere quelli esistenti e inefficienti. Lo studio ha analizzato le prestazioni tecniche, economiche e ambientali di 1.037 centrali elettriche a carbone cinesi. Di queste, il 18 per cento è risultato altamente inefficiente e potrebbe essere chiuso rapidamente e facilmente, mentre circa il 60 per cento, presente nelle province dello Shandong, Mongolia Interna, Henan, Hebei, Jiangsu e Shanxi, è attivo da oltre un decennio. [fonte SCMP]
La Corea del Nord interrompe i rapporti diplomatici con la Malaysia