L’ultimo round di colloqui tra Cina e India non sembra aver compiuto significativi passi avanti. Stamattina, un portavoce dell’esercito di liberazione popolare ha accusato le truppe indiane di aver oltrepassato la linea attuale di controllo, la zona di confine contesa che separa i due giganti asiatici, e di aver risposto con colpi di arma da fuoco al sopraggiungere dei soldati cinesi, spediti a monitorare la situazione. Una ricostruzione – contestata da Nuova Delhi – che, se confermata, attesterebbe la violazione degli accordi presi negli anni ’90 per scongiurare l’utilizzo di esplosivi lungo la frontiera. Il fatto è accaduto lunedì, ad appena un paio di giorni dall’incontro dei due ministri della Difesa in occasione della riunione della Shanghai Cooperation Organization a Mosca, conclusosi con un nulla di fatto e reciproche accuse di interferenza nella zona del Ladakh. Ma la tensione tra Cina e India non è limitata alla regione settentrionale. La recente scomparsa di cinque indiani più a est, nell’Arunachal Pradesh, ha riacceso i riflettori sull’area storicamente contesa da entrambi gli stati. Il governo cinese ha sempre rifiutato di accettare l’accordo di Simla che trasferiva la sovranità di questi territori dal Tibet all’India e definisce ancora oggi la zona come “Tibet Meridionale”. Le tensioni nell’Arunachal Pradesh fanno seguito all’uccisione di un soldato tibetano della Special Frontier Force, reparto speciale paramilitare indiano dedicato al contenimento cinese in caso di dispute territoriali a partire dall’ultima guerra ufficiale, avvenuta nel 1962. L’uomo era uno dei tanti rifugiati tibetani che a partire dal 1959 -anno dell’annessione cinese del Tibet, hanno scelto di unirsi al SFF indiano come “unico mezzo per combattere la Cina”. Questi due episodi hanno acceso nuovamente la questione tibetana e potrebbero esacerbare tensioni e insicurezze nella regione che durano da oltre ottant’anni, oltre a preoccupare i cittadini tibetani che rischiano pene molto severe se sospettati di secessionismo da quando è stata approvata la nuova legge di sicurezza nazionale cinese. [Fonte:SCMP SCMP, SCMP]
La Cina diventa sempre più inaccessibile per la stampa straniera
Aumenta il numero di corrispondenti stranieri che si vedono rifiutare il rinnovo delle credenziali per lavorare come giornalista in Cina: Wall Street Journal, CNN, Bloomberg and Getty Images hanno denunciato l’arbitraria decisione delle autorità cinesi di rimandare o cancellare le procedure di rinnovo delle credenziali che permettono ai giornalisti stranieri di lavorare nel paese. Ad oggi sono stati espulsi dal paese 17 corrispondenti stranieri e, come i giornalisti coinvolti in questa vicenda, lavorano in gran parte per i media americani. Un portavoce del governo, Zhao Lijian, avrebbe assicurato gli Stati Uniti che i corrispondenti potranno continuare a lavorare in Cina nonostante la scadenza delle credenziali grazie a un permesso speciale. La controparte cinese ha inoltre ribadito che le corrispondenti limitazioni ai giornalisti cinesi in America (riducendo la durata dei visti per giornalismo) rappresentano una pericolosa mossa che evidenzia una “mentalità da Guerra Fredda”. Viene comunque aperta la strada della cooperazione se l’America sarà disposta a trattare equamente i corrispondenti dei media cinesi. Il Foreign Correspondents’ Club of China si dice molto preoccupato dei recenti sviluppi nel mondo dei media esteri in Cina, affermando che un semplice permesso temporaneo non costituisca la base legale che garantisce ai giornalisti di tutelare il proprio lavoro, oltre al fatto di poter essere cancellabile in qualsiasi momento. Di stamattina l’annuncio del rimpatrio di due giornalisti di ABC e The Australian Review – le uniche testate australiane ad avere ancora reporter accreditati in Cina – dopo la convocazione della polizia per colloqui su “questioni di sicurezza nazionale”. La notizia segue di pochi giorni l’arresto di una giornalista sino-australiana e giunge in uno dei periodi più complicati per le relazioni bilaterali, tra accuse di interferenze politiche e assertività militare nel Pacifico. [Fonte:SCMP, the Guardian]
Pechino avrà la sua ZES digitale
Venerdì 4 settembre il presidente cinese Xi Jinping ha annunciato il progetto per la creazione di una nuova Zona Economica Speciale dedicata al mondo digitale e ai big data. La notizia è arrivata durante la fiera internazionale per il commercio dei servizi tenutasi a Pechino e fa seguito a una più generale strategia a supporto del terzo settore in Cina. Il progetto-pilota prevede nuovi incentivi per lo sviluppo della gestione e del commercio dei dati digitali, oltre ad aprire la strada per l’internazionalizzazione delle aziende di servizi digitali cinesi. Tra i settori da sviluppare emergono la sicurezza digitale, la comunicazione tra reti e piattaforme, l’integrazione digitale nell’industria manifatturiera e i sistemi di governance digitale. La capitale cinese diventerà la zona di sviluppo pioneristico di nuove tecnologie al servizio dell’economia e della gestione digitalizzata delle città, coerente con la progettazione delle nuove smart cities cinesi, oggi già in fase sperimentale: la “città ideale” di Xiong’An (a 100km da Pechino) e la regione metropolitana del triangolo Pechino-Tianjin-Hebei. Secondo i dati rilasciati dalle autorità è previsto che il settore digitale costituirà il 55% del PIL della regione pechinese entro il 2022, trasformandola nella capitale dell’avanguardia digitale ed esempio da estendere successivamente in tutto il paese. [Fonte: CGTN/ China News]
Il Laos cederà la gestione della rete elettrica nazionale alla Cina
La maggior parte della rete elettrica laotiana verrà gestita dall’azienda cinese China Southern Power Grid Co.: l’annuncio è stato dato dall’agenzia di stampa nazionale cinese Xinhua mercoledì scorso, che ha descritto la partecipazione cinese all’azienda statale locale Electricite du Laos (EdL) “un ulteriore passo verso l’approfondimento della cooperazione win-win tra i due paesi”. La notizia arriva in un momento di particolare scrutinio internazionale sul tema della “debt trap” cinese nei progetti di cooperazione infrastrutturale inclusi nel progetto della Nuova Via della Seta: il Laos, paese povero e senza sbocchi sul mare, sarebbe l’ennesimo stato a rischio default nel tentativo di onorare il debito con le compagnie di costruzione cinesi. La rete elettrica rappresenta inoltre una possibilità di crescita economica unica per il piccolo stato asiatico, che si trova nella posizione geografica ideale per investire sulle esportazioni e sulla fornitura di elettricità a Vietnam, Cambogia Myanmar e Thailandia. L’incrementale partecipazione cinese rischia di ridurre la capacità per il governo laotiano di gestire liberamente i progetti nel settore energetico che può essere una grande opportunità ma anche trasformarsi in una grave minaccia ambientale e sociale. Anche il Myanmar aveva recentemente fatto notizia per la stragrande partecipazione cinese di progetti di transizione energetica, soprattutto nel fotovoltaico. Nonostante la crisi scatenata dalla pandemia di Covid-19, la Cina rimane uno dei maggiori investitori nel settore delle infrastrutture energetiche e di trasporto non solo nel quadro euroasiatico dei progetti Belt and Road, ma in tutto il mondo. [fonte Reuters, Nikkei]
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Formazione in Lingua e letteratura cinese e specializzazione in scienze internazionali, scrive di temi ambientali per China Files con la rubrica “Sustainalytics”. Collabora con diverse testate ed emittenti radio, occupandosi soprattutto di energia e sostenibilità ambientale.