I titoli di oggi:
- Semiconduttori, Pechino accusata di furto tecnologico
- Cina in Africa, una ricerca mette in discussione la “trappola del debito”
- Investimenti e dazi: segnali di apertura dagli Usa con le società cinesi
- Prima visita nel Pacifico del nuovo premier labourista Albanese
- Corea del Nord, tensioni tra Cina e Canada sui pattugliamenti aerei
- Myanmar, aumenta la violenza tra giunta e oppositori
Semiconduttori, Pechino accusata di furto tecnologico
La Cina favorisce il furto di tecnologia. È quanto denuncia un report di ASML, società specializzata in software per la produzione di microchip. Un articolo pubblicato dalla testata statunitense Bloomberg racconta la disputa tra il gigante tech olandese e la cinese Dongfang Jingyuan Electron Ltd. Secondo quanto riportato dall’azienda europea, infatti, il competitor cinese ha origine nella defunta Xtal Inc., un’azienda della Silicon Valley che ASML ha citato in giudizio per furto di proprietà intellettuale nel 2018. L’azienda era stata fondata dall’ingeniere Yu Zongchang, sul quale pende un mandato d’arresto in California. Secondo ASML l’uomo avrebbe rubato l’intero codice sorgente del software principale dell’azienda. E qui torniamo alla Dongfang Jingyuan Electron Ltd., che è gestita oggi proprio da Yu Zongchang e che ottiene ampi finanziamenti da Pechino per la ricerca sui semiconduttori.
Il tema dello sviluppo di microchip sempre più avanzati è da tempo oggetto di controversie legali. La competizione tra industrie per la conquista dei mercati fa parte dell’interesse nazionale dei paesi leader di queste tecnologie, mentre crescono la complessità delle ricerche e le opportunità di approvvigionamento dei componenti. La Repubblica popolare ha lanciato un piano da 150 miliardi di dollari nel 2014 e punta all’autosufficienza nel settore entro il prossimo decennio. Il caso del programma di ASML sarebbe quindi coerente con i tentativi di Pechino per la costruzione di macchine per la produzione di chip “in house”.
Cina in Africa, una ricerca mette in discussione la “trappola del debito”
“Ciò che tiene svegli di notte i leader africani non è la trappola del debito cinese. Sono i capricci del mercato obbligazionario”. Questa è una delle conclusioni della ricerca di Harry Verhoeven del Center on Global Energy Policy della Columbia University e di Nicolas Lippolis del dipartimento di politica e relazioni internazionali dell’Università di Oxford. Lo studio analizza il flusso di capitali dal continente africano verso i suoi creditori, e scioglie la Cina dall’accusa di essere il suo maggiore creditore. In termini assoluti, dunque, la percentuale di debito africano in mano alla Cina sarebbe inferiore rispetto alle obbligazioni contratte nei confronti dei partner occidentali – in particolare soggetti privati di Europa e Nord America. Pechino possiede l’8% del debito totale africano, e il 18% del suo debito estero.
La ricerca rivela inoltre come i prestiti cinesi non siano presenti su tutto il continente, ma che siano concentrati soprattutto in Angola, Etiopia, Kenya, Nigeria e Zambia. La narrazione intorno alla trappola del debito, affermano gli studiosi, sarebbe enfatizzata nel quadro di una più ampia competizione tra potenze. “Sosteniamo che si tratti più della competizione per il potere e l’influenza tra gli Stati Uniti e la Cina”, concludono, “mentre non ci concentriamo abbastanza a ragionare di cosa hanno davvero bisogno i paesi africani”.
Investimenti e dazi: segnali di apertura dagli Usa con le società cinesi
Al fine di contrastare i tassi alti di inflazione il presidente degli Stati Uniti Joe Biden sta esaminando l’eventualità di revocare alcuni dazi sui prodotti cinesi imposti dal suo predecessore Donald Trump nel 2018 e nel 2019. Lo ha detto domenica in una intervista alla CNN la Segretaria al Commercio Gina Raimondo, spiegando come Biden abbia chiesto al suo team di esaminare tale opzione, aggiungendo che di fatto potrebbero essere abolite le tariffe che riguardano merci come articoli per la casa e biciclette. Ma Washington ha deciso di mantenere alcune delle tariffe su acciaio e alluminio per proteggere i lavoratori del paese. Nel caso dei pannelli solari, gli Stati Uniti hanno riabilitato le aziende di Cambogia, Malesia, Thailandia e Vietnam, ma non quelle cinesi. Si teme, infatti, che Pechino, leader nel settore, faccia ricorso al lavoro forzato di Uiguri e altre minoranze etniche.
Raimondo ha poi virato sulla questione della carenza di chip per semiconduttori, che secondo la Segretaria potrebbe continuare fino al 2024: “Il Congresso deve agire e approvare la legge sui chip. Non capisco perché stiano ritardando”. Se approvato, il Chips Act stanzierebbe 52 miliardi di dollari di sussidi per le aziende statunitensi produttrici di semiconduttori, aumentando così la competitività del paese con la tecnologia cinese.
Segnali di apertura provengono anche dal fronte investimenti. Venerdì scorso gli investitori statunitensi avrebbero dovuto cessare di negoziare azioni e obbligazioni di società legate al “complesso militare-industriale cinese“, secondo un divieto annunciato da Donald Trump a novembre del 2021 che vietava esplicitamente la detenzione di titoli di società inserite nella lista nera dopo un periodo di grazia di un anno. Un periodo che, a seguito dell’aggiornamento da parte dell’amministrazione Biden a giugno 2021, scadeva, per l’appunto, il 3 giugno scorso. Ma all’ultimo minuto l’agenzia di Washington incaricata di far rispettare il divieto, l’Office of Foreign Assets Control (OFAC) del Dipartimento del Tesoro statunitense, ha notificato che gli investitori “possono continuare a detenere tali titoli dopo il periodo di disinvestimento”. “Molte istituzioni finanziarie hanno fatto pressione sull’OFAC affinché confermasse in modo più chiaro quanto previsto dalle normative”, ha dichiarato a Nikkei Asia Ali Burney, consulente partner dello studio legale statunitense Steptoe & Johnson di Hong Kong. Il recente “via libera” non chiarisce, tuttavia, se le società non si trovino più nella lista nera. Per ora è chiaro che gli investitori potranno negoziare i titoli di nove società inserite nella lista nera lo scorso dicembre da Biden per altri sei mesi: si tratta di colossi operative nell’intelligenza artificiale, come SenseTime Group.
Prima visita nel Pacifico del nuovo premier labourista Albanese
Dalla vittoria alle elezioni federali del 21 maggio, il nuovo governo labourista ha intensificato l’offensiva diplomatica regionale. Domenica e lunedì il nuovo premier Anthony Albanese ha compiuto una visita ufficiale in Indonesia, dove ha dichiarato di voler rafforzare i legami tra i due paesi e di essere intenzionato, in generale, ad approfondire la cooperazione con e paesi del Sud-Est Asiatico. “Credo che tutti si rendano conto che viviamo in un periodo in cui la regione è in fase di rimodellamento, e ciò che è importante è che i paesi lavorino insieme per garantire che la regione rimanga pacifica, prospera e rispettosa della sovranità”, ha dichiarato la ministra degli Esteri australiana Penny Wong al termine dell’incontro con il suo omologo Retno Marsudi, nella stessa occasione. “L’Indonesia”, ha aggiunto, “è fondamentale per la nostra sicurezza”.
Nelle scorse ore Albanese ha anche avuto una colloquio – definito come “cordiale e positivo” – con Taur Matan Rauk, il primo ministro di Timor Est, che ha appena firmato nuovi accordi bilaterali con Pechino in settori come agricoltura, partnership con i media e cooperazione economica e tecnica. Domenica l’Australia ha lamentato una “pericolosa” intercettazione di un volo cinese di sorveglianza marittima nello spazio aereo internazionale nel Mar Cinese Meridionale del 26 maggio: secondo quando dichiarato ai giornalisti dal ministro della Difesa Richard Marles, l’aereo cinese avrebbe anche “rilasciato dei razzi”.
Corea del Nord, tensioni tra Cina e Canada sui pattugliamenti aerei
Lunedì 6 giugno il ministero degli Esteri cinese ha accusato Ottawa di interferire sui pattugliamenti aerei della sua aeronautica. Come affermato dal portavoce Zhao Lijian, il Consiglio di sicurezza Onu “non ha mai autorizzato nessun paese a svolgere la sorveglianza militare nei mari e nello spazio aereo di altri paesi in nome dell’applicazione delle sanzioni”. “Gravi conseguenze” sarebbero previste se il Canada continua a “provocare” gli aerei cinesi con il “pretesto di svolgere una missione Onu”.
Alla denuncia per cui Ottawa starebbe mettendo in pericolo la sicurezza nazionale cinese il premier canadese Justin Trudeau ha risposto con decisione – qualcosa che non accade spesso nelle esternazioni pubbliche del leader. Per Trudeau le azioni della Cina “sono irresponsabili e provocatorie” e “mettono a rischio le persone” Inoltre, “non rispettano le decisioni del Consiglio di sicurezza in merito alle sanzioni contro la Corea del Nord”.
Nel frattempo, la vicesegretaria di Stato statunitense Wendy Sherman ha dichiarato martedì 7 giugno che gli Usa risponderanno “in modo forte e chiaro” qualora Pyongyang dovesse condurre un test nucleare. “Siamo preparati”, ha detto, “e proseguiremo nel quadro del dialogo trilaterale con Corea del Sud e Giappone”.
Myanmar, aumenta la violenza tra giunta e oppositori
Sempre meno resistenza passiva e sempre più guerra civile? Un approfondimento del New York Times riporta alcuni episodi di violenza che hanno visto protagoniste alcune fazioni contrarie al regime del Tatmadaw, le forze armate birmane che hanno preso il potere con il golpe del 1° febbraio 2021. Oggi sarebbero almeno 400 i gruppi armati che operano sul territorio. Alcuni di questi stanno ricorrendo alle intimidazioni e agli omicidi per portare gli amministratori locali dalla parte degli oppositori al regime.
Incerti i dati sulle vittime, che vengono stimate a 14.890 per il Tatmadaw e 1000 tra i combattenti – numeri presumibilmente falsati poiché manca una vera ricerca sul campo. Nel frattempo, aumentano anche gli omicidi perpetrati da gruppi armati legati all’esercito birmano, che già in passato si sono macchiati di gravi crimini nei confronti della popolazione civile.
A cura di Sabrina Moles e Vittoria Mazzieri