Per la prima volta in 30 anni, la fiaccolata in ricordo del massacro di Tian’anmen non si farà. O almeno non nella tradizionale cornice di Victoria Park. Come spiegato ieri alla stampa da uno degli organizzatori, il vicepresidente della Hong Kong Alliance in Support of Patriotic Democratic Movements in China, Richard Tsoi, la polizia locale ha negato il consenso per motivi di sicurezza dal momento che è ancora in vigore il divieto di assembramento anti-covid. Ogni anno il 4 giugno centinaia di migliaia di hongkonghesi scendono in piazza per commemorare i fatti dell’89, anche se negli ultimi anni una spaccatura all’interno del movimento pro-democrazia ha ridimensionato la portata simbolica dell’evento. Nonostante il no delle autorità, l’Alleanza ha invitato i cittadini a prendere parte a una veglia online che gli organizzatori terranno individualmente nel”iconico parco di Hong Kong a nome di tutti i partecipanti. L’evento comincerà alle 20:09 con un minuto di silenzio. Intanto, anche a Macao, l’altra regione amministrativa speciale, la manifestazione indetta dal Democratic Development Union si dovrà tenere live per ragioni di “salute pubblica”. [fonte: HKFP]
L’impercettibile tensione tra Pechino e l’Oms
Dall’inizio dell’epidemia, Pechino ha potuto contare sull’endorsement dell’Oms per azzittire le critiche suscitate dalla lenta risposta nelle fasi iniziali della crisi. Ma, secondo le opinioni degli insider raccolte da AP, un senso di frustrazione predomina all’interno dell’agenzia internazionale a causa della reticenza dimostrata dalle autorità cinesi nel rilasciare le informazioni necessarie. A gennaio, ci è voluta più di una settimana per ottenere il genoma dopo che tre diversi laboratori statali avevano completato la decodificazione delle informazioni. La pubblicazione ufficiale dei dati è giunta solo in seguito al rilascio della sequenza genetica da parte di un centro di ricerca non autorizzato. L’Oms ha ottenuto i dettagli di casi e pazienti appena una quindicina di giorni dopo. Il report conclude che, anziché coprire la Cina come insinuato da Trump, l’organizzazione è stata tenuta all’oscuro di quanto appreso inizialmente a causa del rigido controllo imposto da Pechino sulla gestione delle informazioni. E, pur nutrendo sincera stima per l'”ottimo lavoro” degli scienziati cinesi, il plauso di Tedros e compagni sembra motivato dalla necessità di ammorbidire la reticenza del governo comunista a condividere il prezioso materiale. [fonte: AP]
Trump colpisce studenti e scienziati cinesi. Ma è rischio boomerang
Gli studenti cinesi tornano nel mirino di Trump. Tra le varie misure preannunciate venerdì dal presidente americano per punire l’assertività di Pechino a Hong Kong e il presunto furto di proprietà intellettuale ai danni delle aziende statunitense ricompare una vecchia minaccia: bandire dalle università a stelle e strisce qualsiasi cittadino cinese che abbia anche solo un vago legame con istituti impegnati nello sviluppo di tecnologia “dual-use”, ovvero con applicazioni tanto civili quanto militari. I senatori Tom Cotton e Marsha Blackburn auspicano provvedimenti anche più stringenti che, se approvati, vieterebbero il rilascio dei visiti per tutti i laureati e i ricercatori specializzati in scienze, tecnologia, ingegneria e matematica. Il motivo ufficiale è intuibile. Si teme che una volta acquisito il know how americano, gli ex studenti rimpatriati (i cosiddetti haigui) mettano le loro conoscenze al servizio del governo cinese. I dati , tuttavia, rivelano che il fenomeno degli haigui è sovrastimato. Secondo la National Science Foundation, il 90% degli studenti delle discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics,) si trovano ancora negli States a distanza di dieci anni dalla laurea. (scelta perseguita da appena il 69% dei coetanei europei). E mentre effettivamente sono sempre di più quelli a tornare, uno studio firmato da ricercatori cinesi dimostra che per “per ogni rimpatriato, 1,4 scienziati cinesi rimangono negli Stati Uniti”. Piuttosto che punire Pechino, allontanare gli studenti cinesi potrebbe rivelarsi un boomerang per Washington, considerato che molti studi realizzati negli Usa sono condotti congiuntamente da scienziati americani e cinesi. [fonte: Bloomberg]
La Cina definisce le violenze sessuali
Per la prima volta, il governo cinese ha rilasciato una definizione ufficiale di “molestie sessuali”. La novità – introdotta con l’approvazione del primo codice civile della Repubblica popolare – arriva a un paio di anni dall’inizio del movimento #metoo e può essere considerata un primo grande balzo in avanti per un paese per tradizione poco empatico nei confronti delle donne. In passato, la mancanza di una cornice giuridica chiara ha spesso disincentivato la denuncia degli abusi. Non molto è stato risolto con l’introduzione, nel 2016, della prima legge sulle violenze domestiche. Ora l’articolo 1.010 del nuovo codice definisce in maniera esplicita tutti i comportamenti perseguibili. Ossia “le parole, le immagini o le azioni fisiche utilizzate per compiere molestie sessuali contro la volontà di una persona”. Mentre questo implica inedite responsabilità per scuole, aziende e altre organizzazioni nella prevenzione e gestione delle violenze, come spesso accade, l’efficacia delle norme viene spesso compromessa nella fase applicativa. [fonte: Reuters]
L’Africa come nuovo hub del “made in China”
L’Africa come nuovo hub del manifatturiero cinese. Grazie alla ricchezza di materie prime e agli stipendi tre volti più bassi che in Cina, il continente si sta rivelando terra di conquista degli imprenditori cinesi. Circa il 12% della produzione industriale locale (per un valore di circa 500 miliardi di dollari) è già in mani cinesi. E sono sempre di più le zone di libero commercio e i parchi industriali realizzati con capitali cinesi. Qui si producono scarpe, vestiti, fibra di vetro, materiali da costruzione, elettronica, prodotti in acciaio e alimentari. Tutte merci dirette verso i mercati europei e americani grazie alla rete di infrastrutture costruite nell’ambito del famigerato progetto Belt and Road. [fonte: SCMP]
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Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.