Pechino ha annunciato una nuova iniziativa sulla sicurezza informatica globale che punta a contrastare il programma Clean Network lanciato dagli Stati Uniti, alleanza tra “oltre 30 paesi e territori puliti impegnati a proteggere le loro reti 5G da fornitori non affidabili”. Lanciando la nuova piattaforma, nella giornata di ieri il ministro degli Esteri Wang Yi si è scagliato contro l’utilizzo politico della sicurezza digitale, condannando l'”unilateralismo” e la “caccia globale” scagliata contro alcune aziende leader. Chiaro riferimento alla persecuzione di cui sono diventate vittima Huawei e Tik Tok. L’obiettivo dell’iniziativa a guida cinese è quello di creare delle regole internazionali sulla tutela dei dati digitali partendo dal presupposto che l’IT “non deve essere utilizzata per danneggiare le infrastrutture strategiche degli altri paesi o per rubare dati importanti; non deve essere sfruttata per condurre sorveglianza di massa contro altri stati o per controllare o manipolare sistemi e dispositivi degli utenti o per costringere le aziende a immagazzinare i dati generati all’estero nel loro paese d’origine.” Tutte pratiche che Washington attribuisce proprio al governo cinese. Aldilà delle note controversie sul cyberspionaggio e il furto di proprietà intellettuale, l’Initiative on Global Data Security ci ricorda come il braccio di ferro tra le due superpotenze trascenda lo sviluppo di tecnologie avanzate, sconfinando nella definizione di standard internazionali. [fonte Strait Time, SCMP]
Giornalisti vittima delle ritorsioni incrociate tra Cina e Australia
Nuovi dettagli fanno luce sul caso di Bill Birtles, ex corrispondente in Cina dell’Australian Broadcasting Corporation (ABC), e Michael Smith, reporter dell’ Australian Financial Review (AFR), richiamati in patria ieri dopo essere stati interrogati dalla polizia cinese, impossibilitati a lasciare il paese per diversi giorni, e poi presi sotto la protezione dell’ambasciata australiana a Pechino e del consolato di Shanghai per diversi giorni fino a quando diplomatici
australiani non sono riusciti a negoziare il loro rilascio. Secondo il SCMP, il fermo dei due giornalisti sarebbe correlato al recente arresto di Cheng Lei, reporter sino-australiana dell’emittente statale CCTV accusata ieri di aver messo a rischio la “sicurezza nazionale”. Ma potrebbe esserci dell’altro. Stando a un’esclusiva del Global Times – confermata dalle autorità diplomatiche cinesi – il 26 giugno l’intelligence di Canberra avrebbe “perquisito la residenza di giornalisti cinesi in Australia interrogandoli, sequestrando i loro computer e smartphone e chiedendo di non denunciare l’incidente”. L’episodio – che giunge dopo l’espulsione di numerosi giornalisti americani – attestata come l’informazione stia diventando vittima delle tensioni e ritorsioni diplomatiche. Se con il rimpatrio di Smith e Birtles l’Australia rimane per la prima volta dal ’72 senza corrispondenti nella Cina continentale, secondo il Foreign Correspondents’ Club of China sono ben 21 i reporter stranieri allontanati dal paese dall’inizio dell’anno, mentre è in dubbio il rinnovo del visto per cinque corrispondenti di testate americane. Rispondendo alla richiesta di chiarimenti, il ministro degli Esteri cinese ha dichiarato che “finché i giornalisti stranieri osservano le leggi, non c’è motivo di preoccuparsi”. [fonte Guardian, BBC]
Mulan: la Disney ringrazia le autorità del Xinjiang
Altre grane per Mulan, il remake dell’omonimo film d’animazione prodotto dalla Disney negli anni ’90. A pochi giorni dall’arrivo nelle sale, la pellicola, già disponibile su Disney+, è tornata nel mirino degli attivisti per la difesa dei diritti umani. Stavolta non centrano le proteste di Hong Kong, contro le quali si è scagliata tempo fa l’attrice protagonista Liu Yifei. Le polemiche sono divampate sul web quando diversi utenti si sono accorti che tra i ringraziamenti nei
titoli di coda compaiono le autorità dello Xinjiang, la regione autonoma uigura balzata ai disonori della cronaca per la repressione delle minoranze etniche musulmane. A indignare è soprattutto la menzione delle forze di polizia di Turpan, una delle zone a ospitare il numero più elevato di centri detentivi per che Pechino chiama “scuole”. Parte del film è stato girato proprio nello Xinjiang nel 2018, quando il sistema della “rieducazione” forzata ha raggiunto il
culmine. L’arrivo nei cinema coincide inoltre con le proteste contro l’introduzione obbligatoria della lingua cinese nelle scuole della Mongolia Interna, un’altra regione ritratta nel film. Gli affari di Disney oltre la Muraglia non sono mai stati tutto rose e fiori. Nel 1996 la multinazionale americana fu bandita dal mercato cinese a causa di Kundun, il film di Martin Scorsese sull’esilio del Dalai Lama. [fonte Guardian]
Covid e il cambio di rotta dell’Ue
Un report dell’Ecfr (European council on foreign relations), prestigioso think tank di Bruxelles, fotografa visibili cambiamenti nei rapporti con il gigante asiatico. Dall’inizio della crisi epidemica, “si è manifestata una nuova convergenza del giudizio degli Stati membri Ue sulle sfide che la Cina pone all’Europa”, sostiene il rapporto. “Le relazioni economiche sino-europee mancano di reciprocità e crescono le preoccupazioni all’interno dell’UE per l’approccio assertivo adottato dalla Cina all’estero, nonché per le infrazioni delle leggi internazionali e le massicce violazioni dei diritti umani a Hong Kong e nello Xinjiang.” Nel complesso, conclude il rapporto, si evidenzia un crescente scetticismo nei confronti del futuro delle relazioni bilaterali, “che potrebbe offrire un’opportunità per definire una politica UE più solida e coerente. Nei restanti mesi, la presidenza tedesca del Consiglio potrebbe sfruttare questo slancio per creare strutture istituzionali al fine di migliorare la capacità di azione. Ma, nel fare ciò, “sarà fondamentale alleviare le preoccupazioni riguardo alla dominanza franco-tedesco nell’agenda cinese – nutrite in particolare dai paesi dell’Europa orientale e meridionale” – consentendo al contempo a tutti gli Stati membri di dettare una linea comune. Il think tank precisa come, sebbene il dibattito sia influenzato dalle dinamiche politiche dei singoli membri, la pandemia sta spostando i processi decisionali verso il centro. Secondo il report, “il consenso emergente tra gli Stati UE sulla Cina riflette un senso condiviso di squilibrio economico, delusione e disagio. Gli Stati membri sono sempre più insoddisfatti a causa della riluttanza del paese a ricambiare l’apertura del mercato comunitario. La maggior parte di loro – non ultime Bulgaria, Polonia e Italia – sono profondamente consapevoli di ricevere ancora relativamente pochi investimenti cinesi”. Di tutti i Paesi dell’Unione, solo uno, la Bulgaria, considera la Cina “un partner strategico”. Nessuno, oggi, la considera invece un “rivale strategico”. In tutti gli altri Stati membri prevale una posizione intermedia, di attendismo: la Cina è vista, “pragmaticamente, sia rivale che partner”. Qui si colloca anche l’Italia ai tempi del Conte-bis, con una precisazione. In un sondaggio dello stesso think tank di maggio scorso, Italia e Bulgaria erano indicati come i due Paesi europei più filocinesi. Oggi invece lo Stivale è inserito nella
lista dei Paesi la cui opinione pubblica ha rapporti “abbastanza controversi” con la Cina.[fonte ECFR, Formiche]
Due militari birmani alla Corte penale internazionale
Per la prima volta, due soldati dell’esercito birmano compariranno davanti alla Corte penale internazionale in merito al massacro dei rohingya, la minoranza islamica che Naypyidaw si ostina a non riconoscere. I due sono stati portati all’Aia martedì dopo aver confessato i propri crimini mentre si trovavano in custodia dell’Arakan Army, gruppo insurrezionale che rivendica l’indipendenza del Rakhine, lo stato dove vive la maggior parte dei rohingya. Non è chiaro come i militari birmani siano finiti nelle mani dei ribelli, sebbene un portavoce dell’Arakan Army sostenga che i pentiti non siano prigionieri bensì disertori. Le atrocità (esecuzioni, sepolture di massa, distruzione di villaggi e stupri) raccontate dai due mentre si trovavano con i miliziani collimano con le deposizioni dei rifugiati rohingya e sono oggetto di un’indagine tanto dell’ICC quanto della Corte internazionale di giustizia, impegnata a determinare se sussistono la accuse di genocidio. La deposizione esplosiva arriva mentre il Myanmar si trova a fronteggiare un impennata di casi di covid. La parte più colpita è proprio lo stato del Rakhine. In un rapporto pubblicato lo scorso anno, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha affermato che permane “il serio rischio che le azioni genocide possano verificarsi o ripetersi” a causa del lassismo dimostrato dal governo birmano nel prevenire gli abusi. [fonte Reuters, NYT]
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Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.