Nelle stesse ore in cui le potenze occidentali condannavano la repressione dello Xinjiang, Pechino incassava il sostegno dei paesi centroasiatici. Mercoledì si è concluso il vertice China + Central Asia (C+C5), ospitato dalla città di Xi’an. Presieduto dal ministro degli Esteri cinese Wang Yi, l’incontro è servito a rilanciare la Belt and Road: Pechino si è impegnato a costruire un centro di medicina tradizionale in Tagikistan, a stringere i rapporti energetici con il Turkmenistan, principale fornitore di gas naturale, e a inviare materiali sanitari e assicurare servizi medici al Kirghizistan. Uzbekistan e Kazakistan si sono aggiudicati la firma di un piano di cooperazione economica e commerciale a lungo termine e lo sviluppo di progetti infrastrutturali di alta qualità di progetti. Secondo la versione cinese, i paesi ospiti hanno ricambiato affermando di sostenere la “sovranità nazionale e l’integrità territoriale” della Cina. Anche nello Xinjiang. L’endorsement ha un peso specifico notevole considerando che l’Asia Centrale condivide con la regione autonoma cinese confini e minoranze etniche. Soprattutto in Kazakistan, la questione xinjianese è molto sentita a livello popolare, ma fino a oggi la voce degli attivisti è stata azzittita da Astana per tutelare gli interessi economici con Pechino. Secondo il Central Asia Barometer, il 30% in Kazakistan e Kirghizistan la Cina è vista sfavorevolmente rispettivamente dal 30% e dal 35% della popolazione. Per gli analisti, il corteggiamento della Cina risponde da una parte alla necessità di controbilanciare un possibile riavvicinamento degli Stan agli Usa, dall’altra alla volontà di promuovere la cooperazione regionale in vista del ritiro di Washington dall’Afghanistan. “Paesi regionali e comunità internazionale desiderano vedere il futuro governo afghano perseguire politiche musulmane moderate ed evitare tendenze estremiste”, ha dichiarato Wang.
Intanto, le notizie in arrivo dallo Xinjiang sono tutt’altro che rassicuranti.
Secondo un rapporto dell’ Australian Strategy Policy Institute, condiviso con AP, nel periodo 2017-2019 la regione autonoma ha visto un crollo delle nascite del 48,74%. E’ la prima volta da quando le Nazioni Unite hanno iniziato a raccogliere le statistiche sulla fertilità globale che viene registrato un calo così netto, superiore persino ai valori riportati durante la guerra civile siriana e i genocidi in Ruanda e Cambogia. Lo studio lascia intendere che la motivazione sia da ricollegare alle sterilizzazioni forzate denunciate da alcune donne uigure e kazake. Si è concentrato invece sulla libertà religiosa Human Right Watch, che in una recente ricerca ha accusate le autorità cinesi di aver arrestato o trattenuto circa 630 imam dal 2014 a oggi con pene severissime. In 14 casi sarebbe stato comminato l’ergastolo. Pechino nega tutto e mostra i festeggiamenti dell’Eid al-Fitr, la fine del Ramadan, davanti alla moschea Id Kah di Kashgar. Una delle poche ancora intatte, evidentemente. Un reportage della Reuters, l’ennesimo del genere, documenta lo smantellamento dei luoghi di culto nella regione autonoma uigura.
La morte di uno studente cinese riaccende il dibatito sulla videosorveglianza
Da giorni sui social cinesi non si parla d’altro: un sedicenne di Chengdu è morto in circostanze poco chiare mentre si trovava a scuola. Il personale dell’istituto ha riferito la tragica notizia alla famiglia solo dopo diverse ore, affermando che il ragazzino si sarebbe suicidato, gettandosi da una terrazza al quarto piano. Una versione che non ha convinto la madre, ricorsa al Twitter cinese Weibo per chiedere trasparenza. Giovedì la storia di Lin aveva generato 1,5 miliardi di post, tanto da spingere i media statali a intervenire. L’agenzia di stampa Xinhua ha ricostruito tutta la vicenda in un “rapporto dettagliato, che include filmati di sorveglianza, immagini in loco e testimonianze”. Il Global Times ha invitato l’opinione pubblica a giudicare l’episodio con “razionalità”. Ma le spiegazioni ufficiali non sembrano aver placato le polemiche. Tutt’altro. Notando come nelle riprese mancasse il momento del presunto salto nel vuoto, i netizen hanno riversato la propria indignazione contro il sistema di videosorveglianza nazionale, ritenuto inefficace benché onnipresente. Secondo una ricerca di IHS Markit, la Cina conta per il 50% delle telecamere installate a livello mondiale. Nel 2017 un caso simile aveva coinvolto un asilo di Pechino, sospettato di maltrattamenti. Nonostante le richieste dei genitori, il materiale video fu consegnato direttamente alla polizia, che scagionò l’istituto dalle accuse. [fonte WSJ GT, ]
Serviranno 2-3 anni per raggiungere l’immunità di gregge
Serviranno tra i due e tre anni di campagna vaccinale per raggiungere l’immunità di gregge a livello globale. A sostenerlo è Zhong Nanshan, noto epidemiologo cinese, secondo il quale ottenere l’immunità di gregge attraverso l’infezione naturale richiederebbe che il 70-80% della popolazione globale venisse infettata, con decessi stimati per il 5% del totale dei casi. Uno scenario “irrealistico, non scientifico e disumano”, ha detto l’esperto. Ipotizzando l’efficacia dei vaccini al 70%, per la Cina il tasso di vaccinazione dovrebbe raggiungere l’83,3% della popolazione, mentre per l’Asia e l’Europa, basterebbe un 80,2 e 96,2%. Al momento la Cina è il paese ad aver somministrato il numero maggiore di sieri, ma se rapportato al totale della popolazione è ancora ferma al 23%. C’è chi attribuisce la prestazione sottotono agli sforzi messi in campo per distribuire i vaccini nei paesi amici. A questo proposito, proprio ieri, il ministero degli Esteri cinese ha affermato di appoggiare l’iniziativa dell’Organizzazione mondiale del commercio per la liberalizzazione dei brevetti dei vaccini. Ma Pechino guarda già al futuro. Prevenire è meglio che curare. Ecco perché è stata lanciata una nuova Amministrazione per il controllo e la prevenzione delle malattie (ne avevamo parlato qui), entrata in servizio ieri con lo scopo di “sviluppare politiche per prevenire e controllare le malattie infettive, supervisionare la prevenzione delle malattie e i sistemi di allarme e altre attività di sanità pubblica”. [fonte GT, Reuters, SCMP]
La Corea del Sud lancia mega piano sui microchip
La Corea del Sud ha annunciato un mega piano per accelerare lo sviluppo dell’industria dei semiconduttori. Samsung Electronics Co. e SK Hynix Inc., i due colossi sudcoreani dei chip, investiranno oltre 510 trilioni di won nella ricerca e produzione di semiconduttori da qui al 2030. In tutto saranno 153 le aziende a partecipare al progetto, che prevedi sgravi fiscali, la formazione di 36.000 specialisti e la creazione di una cintura industriale nelle province di Gyeonggi e del Chungcheong meridionale. I semiconduttori rappresentano la quota maggiore delle esportazioni del paese asiatico, che si prevede raddoppieranno a 200 miliardi di dollari entro il 2030.
I due colossi sudcoreani – insieme al gruppo taiwanese TSMC – hanno recentemente aderito alla Siac (Semiconductor in America coalition), la neonata lobby statunitense degli sviluppatori e degli utilizzatori di chip, creata per contrastare il tentativo della Cina di collocarsi in cima alla catena del valore dei semiconduttori. Sul sito internet dell’alleanza si legge che la sua missione è “sostenere l’economia, l’infrastruttura critica e la sicurezza nazionale americane facendo avanzare la produzione e la ricerca di semiconduttori negli Usa“. La Cina è all’opera per creare una base produttiva su territorio nazionale, non senza difficoltà: il gigante cinese dei semiconduttori SMIC ha ammesso ritardi nello sviluppo di un impianto per la lavorazione dei wafer a Shenzhen. Nel mese di aprile le vendite di smartphone oltre la Muraglia sono crollate di circa il 34% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, secondo gli esperti, proprio a causa della carenza di microchip aggravata dalle limitazioni sull’export di tecnologia americana [fonte Bloomebrg, SCMP, SCMP]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.