La nostra rassegna quotidiana
Nord Corea: Usa chiedono l’embargo sul petrolio
Secondo una copia della risoluzione al vaglio dell’Onu visionata dalla stampa interenazionale, la prossima tornata di sanzioni contro Pyongyang prevedrebbe, tra le altre cose, il tanto atteso embargo sul petrolio e il congelamento dei beni del leader Kim Jong-un, che verrebbe inoltre sottoposto a un divieto di viaggi all’estero.
La bozza — che con ogni probabilità verrà bloccata da Cina e Russia — è stata presentata da Washington subito dopo la telefonata di ieri tra Trump e Xi Jinping nella quale il presidente americano ha assicurato che l’opzione militare non è la sua “prima scelta”. Il leader cinese ha ribadito il proprio sostegno ad una denuclearizzazione della penisola coreana attraverso mezzi pacifici, mentre Trump da parte sua ha dichiarato di attribuire grande importanza al ruolo della Cina nella risoluzione della crisi.
Dopo un inizio idillico, le relazioni tra i due si sono deteriorate negli ultimi mesi a causa di quella che Trump ha definito scarsa cooperatività di Pechino sul versante nordcoreano. La Cina considera Washington corresponsabile dell’escalation nella regione e ha già sporto formale condanna della ripresa dei lavori di istallazione del sistema antimissile Thaad in Corea del Sud, di cui Pechino teme di essere il vero target. La notizia del dispiegamento delle quattro batterie di missili mancanti ha portato alla mobilitazione di centinaia di attivisti anti-Thaad provenienti dalle città di Seongju e Gimcheon. Tafferugli con le forze dell’ordine hanno fatto almeno 38 feriti.
Negli Usa è allarme terre rare
A giugno una conglomerata legata al governo cinese ha messo le mani su Mountain Pass (California), uno dei pochi deposito di terre rare non ancora controllato dalla Cina. Negli ultimi anni il gigante asiatico è arrivato a contare per il 97% dei preziosi elementi utilizzati nell’industria hi-tech e militare, strappando il primato agli Stati Uniti — costretti a operare nel rispetto di precisi criteri di tutela ambientale. Nel 2015, Molycorp Inc, l’ormai fallita proprietaria del giacimento, è stata costretta a sospendere la produzione in seguito al repentino crollo dei prezzi causato dall’alluvione di terre rare “made in China” sul mercato. Le importazioni annue degli Usa ammontano tra i 120 e i 160 milioni di dollari. Secondo il sito conservatore Breitbart, il pericolo di una crescente dipendenza da Pechino starebbe spingendo la Casa Bianca a valutare la possibilità di una nazionalizzazione di Mountain Pass.
Crisi rohingya: il Myanmar chiede aiuto a Russia e Cina
Secondo quanto affermato nella giornata di ieri dal National Security Adviser Thaung Tun, la Birmania starebbe lavorando a livello diplomatico con Russia e Cina per bloccare un’eventuale risoluzione Onu sulla crisi dei rohingya. Il sostegno dei due “paesi amici” arriva mentre sul governo di Aung San Suu Kyi piombano critiche — da parte del mondo occidentale e islamico — per il modo in cui sta gestendo la questione della minoranza musulmana, non riconosciuta formalmente dal governo di Naypyidaw.
Secondo quanto dichiarato alla Reuters da fonti di Dhaka, negli ultimi giorni persone non meglio identificate — ma “certamente non miliziani rohingya” — hanno cosparso il confine con il Bangladesh di mine probabilmente per prevenire un rimpatrio da parte dei migliaia di sfollati fuggiti ai disordini verificatisi nello stato Rakhine alla fine di agosto dopo una serie di “attacchi terroristici” rivendicati dalla Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA). Una ricostruzione che parrebbe chiarire le due esplosioni riportate martedì dai funzionari di frontiera bangladeshi in cui sono rimasti feriti due ragazzi. Una fonte militare birmana ha dichiarato che le mine erano state posizionate lungo il confine negli anni ’90 per impedire gli sconfinamenti lungo la frontiera e che da allora l’esercito si era adoperato per rimuoverle. La Birmania, a lungo guidata dalla giunta militare, è uno dei pochi paesi a non aver sottoscritto il Mine Ban Treaty del 1997.
Ibnu Mas‘ud: la culla del radicalismo indonesiano
La culla del radicalismo indonesiano è una scuola religiosa fondata nel 2007 dall’ideologo salafita Aman Abdurrahman. Documenti visionati dalla Reuters attestano che, tra il 2013 e il 2016, tredici persone della Ibnu Mas‘ud — tra cui otto insegnanti e quattro studenti- hanno raggiunto o hanno tentato di raggiungere il Medio Oriente per ricongiungersi allo Stato Islamico. Almeno 18 persone legate alla scuola sono state condannate o arrestate per aver pianificato o realizzato attacchi terroristici in Indonesia, compresi i tre attentati più cruenti degli ultimi 20 mesi.
Secondo le stime delle autorità, in Indonesia ci sono 1200 simpatizzanti dell’Isis, mentre 500 militanti indonesiani avrebbero lasciato il paese asiatico per la Siria. Unica fonte di istruzione per i bambini delle aree rurali, in tutto sono 30mila gli istituti islamici, di cui alcuni sospettati di avere legami con il terrorismo.