Doveva essere un meeting all’insegna della “China policy”, invece il vertice informale in Slovenia è diventato un incontro per ripensare il ruolo dell’Ue nei principali dossier internazionali, dall’Afghanistan al cambiamento climatico. Certo, la Cina rimane una presenza ingombrante. Ma lo strappo causato dalla Aukus, la nuova alleanza indopacifica a trazione americana che ha escluso Bruxelles, sembra aver anteposto la necessità innanzitutto di ridefinire il rapporto con Washington senza compromettere la liaison con Pechino. La parola d’ordine continua ad essere più che mai autonomia strategica. Prima del vertice dei leader europei, cominciato martedì sera, la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha parlato con Biden per riaffermare la comunione di vedute per quanto concerne le violazioni dei diritti umani in Cina e le politiche industriali distorsive di Pechino. Ma ha escluso la via del decoupling. Il problema del blocco comunitario continua tuttavia ad essere sempre lo stesso: anche quando si parla di Cina, i 27 stentano a trovare una visione comune. L’accordo sugli investimenti bilaterali sostenuto dalla commissione europea e bloccato in parlamento sarà tra i temi all’ordine del giorno, insieme a Taiwan. L’isola democratica si è rivelata una vera spina nel fianco da quando la Lituania è diventata il primo paese europeo a rinominare la sede diplomatica di Taipei accentuandone la “taiwanesita'”. Secondo il SCMP, al gesto simbolico è seguita la richiesta di Vilnius di riconsiderare la visione strategica Ue in modo da efattizzare il rapporto di rivalità con Pechino ridimensionandone il ruolo di partner e competitor. Angela Merkel pare non abbia gradito.
Intanto un gruppo di senatori francesi -compreso l’ex ministro della Difesa Alain Richard- è partito per Taipei. L’attivismo della diplomazia europea coincide con una nuova escalation militare nello Stretto: dallo scorso weekend la Cina ha spedito oltre 150 aerei nell’ADIZ taiwanese. [fonte SCMP, SCMP]
Biden, Xi e “l’accordo su Taiwan”
Di Taiwan è tornato a parlare anche Biden che nella giornata di ieri ha dichiarato di aver discusso la “One China Policy” con Xi Jinping. Non in questi termini, però. Facendo probabilmente riferimento alla recente conversazione telefonica con il leader cinese, il presidente americano ha affermato che Xi ha assicurato che si atterrà “all’accordo su Taiwan”. Una rassicurazione che, anziché tranquillizzare, solleva nuove domande sulla strategia americana nello Stretto, considerando che Pechino e Washington non hanno mai sottoscritto alcun accordo comune in merito al futuro dell’isola. Le due potenze interpretano a proprio modo il principio “una sola Cina”, e gli States hanno definito le relazioni con Taipei dopo il riconoscimento diplomatico della Cina continentale con i tre comunicati congiunti, le sei assicurazioni e il Taiwan Relations Act. Dichiarazioni unilaterali, queste ultime, che peraltro sottolineano l’impegno ad armare l’ex Formosa. Uno degli aspetti che più irritano Pechino, ma che trova giustificazione nelle continue incursioni aeree cinesi. Proprio stamane, il ministro della Difesa Chiu Kuo-cheng ha dichiarato che la Cina sarà pienamente in grado di invadere Taiwan entro il 2025. Chissà se parleranno anche di questo il consigliere per la Sicurezza nazionale Jack Sullivan e Yang Jiechi, durate l’imminente e inatteso bilaterale in Svizzera. [fonte Reuters, SCMP]
Il mercato immobiliare cinese e il capitalismo clientelare
Non solo Evergrande. La crisi del debito è un male comune tra gli sviluppatori immobiliari cinesi. Nella giornata di lunedì, il conglomerato con base a Shenzhen Fantasia Holdings Group non è stata in grado di saldare i 205,7 milioni di dollari dovuti ai suoi creditori lunedì, dopo che la società di gestione Country Garden Services Holdings aveva riferito che una controllata di Fantasia non aveva rimborsato un prestito di 700 milioni di yuan, prevedendo un possibile default del gruppo immobile. questo mese. Il mancato pagamento è arrivato solo due settimane dopo che la società aveva dichiarato di non avere problemi di liquidità in previsione delle obbligazioni in scadenza. Il conseguente declassamento di Fitch e Moody’s non lascia presagire nulla di buono.
Al di là delle conseguenze strettamente economiche, Fortuna ha una particolarità: come Evergrande (il cui presidente Xu Jiayin è membro del principale organo consultivo cinese) vanta contatti politici importanti: è stata infatti fondata nel 1996 dal nipote dell’ex vicepresidente Zeng Qinghong. Secondo un’indagine condotta nel 2018 dal sindacato UNITE HERE, il gruppo sarebbe inoltre legato a Lai Xiaomin, dirigente di Huarong Asset Management giustiziato a gennaio dopo una condanna per corruzione. Non è escluso che la sorte delle due aziende rispecchi il tramonto del capitalismo clientelare vecchio stampo. Xi Jinping fin dall’inizio del suo mandato ha declinato l’opera di pulizia nei ranghi del partito e nel settore privato per eliminare gli avversari politici. Le sorti dell’ex leader Zeng Qinghong sono da tempo sotto la lente della stampa scandalistica. Nel 2014 il sito Boxun associò il suo nome a quello del businessman Xiao Jianhua, rapito dai servizi cinesi quattro anni fa mentre si trovava a Hong Kong. [fonte SCMP, SCMP, Business Wire]
La Cina allenta il ban sul carbone australiano?
La crisi energetica delle ultime settimana pare abbia spinto Pechino ad allentare il ban sul carbone australiano, introdotto in ritorsione alla posizione mantenuta da Canberra sull’origine della pandemia e alla revoca dell’accordo sulla Belt and Road da parte dello stato di Victoria. Secondo Nick Ristic, analista di Braemar ACM Shipbroking, alcuni carichi australiani in attesa fuori dai porti cinesi sono giunti a destinazione. Si parla di 450.000 tonnellate di carbone, numeri di poco superiori alle stime della società di ricerca energetica Kpler, stando alla quale cinque navi in attesa al largo delle coste cinesi hanno scaricato 383.000 tonnellate di carbone termico australiano il mese scorso. Il carbone è il principale combustibile utilizzato in Cina e le difficoltà riscontrata nel mantenere costante la distribuzione di energia elettrica a causa dell’aumento dei prezzi delle forniture ha causato diffusi blackout. Una situazione a cui Pechino ha cercato di rispondere attingendo ad altre fonti. Lunedì la provincia del Zhejiang ha ricevuto il primo carico di carbone dal Kazakistan. Una soluzione fino a poco tempo fa scartata a causa degli alti costi di spedizione su rotaia. Ma pare che le autorità cinesi stiano anche allentando i controlli sulla sicurezza nelle miniere. La Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme lunedì ha annunciato che gli incidenti durante le attività di mining non comporteranno la chiusura dei siti circostanti. Intanto, le autorità hanno dato disposizioni alle banche cinesi di fornire liquidità tanto ai produttori di carbone quanto alle centrali elettriche. [fonte FT, Boomberg]
Cina e Hong Kong nei Pandora Papers
C’è anche un po’ di Cina nei Pandora Papers, la più grande fuga di dati sensibili riguardanti i paradisi fiscali. Si tratta di Feng Qiya, membro dell’Assemblea nazionale del popolo, il parlamento cinese, che secondo gli autori del report avrebbe registrato un’azienda alle isole Vergini – la Linkhigh Trading. La pratica di registrare le società nei paradisi fiscali è finita sotto la lente delle autorità cinesi sulla scia dell’indagine a carico di Didi (incorporata alle Cayman), confluita in una più rigida regolamentazione delle IPO all’estero. Come delegata, Feng si era battuta per rafforzare la campagna contro la corruzione. Oltre a Feng, l’inchiesta cita gli ex chief executive di Hong Kong Tung Chee-hwa e Leung Chun-ying, quest’ultimo sottoposto a un’inchiesta anticorruzione. Nel 2018 il caso è stato lasciato cadere per insufficienza di prove. Per uno sguardo più ampio sull’Asia rimandiamo al report dello Strait Times . [fonte Bloomberg]
Le perdite economiche della mancata conversione cinese all’economia di mercato
La Cina potrebbe pagare cara la mancata transizione verso un’economia di mercato. A dirlo è lo studio China Pathfinder realizzato congiuntamente da Atlantic Council e Rhodium Group, secondo il quale il rafforzamento del comparto statale a detrimento del settore privato potrebbe impedire al gigante asiatico di mantenere una crescita superiore al 3% annuo entro i prossimi cinque anni. Lo studio invita le economie di mercato a trovare nuovi modi per “difendersi” dalla Cina, individuando nel 2016 l’anno della svolta involutiva del gigante asiatico. L’inadeguata concorrenza di mercato e l’inefficienza ridurranno la produttività e, di conseguenza, il prodotto interno lordo. Si parla”potenzialmente di migliaia di miliardi di dollari entro cinque anni”, avverte il report. [fonte Reuters, scmp]
A cura di Alessandra Colarizi
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.