Ascensori fermi, luci spente la sera e fabbriche a basso regime. E’ quanto da alcuni giorni sta avvenendo in alcune province cinesi da quando Pechino ha vietato le importazioni di carbone australiano, tra i combustibili più usati nel paese. Negli ultimi otto mesi, tra Cina e Australia è sceso il gelo. Il governo di Scott Morrison ha ereditato frizioni di vecchia data, acuite quest’anno dalla decisione di avviare indagini internazionali sull’origine del coronavirus. L’introduzione di una recente legge che permette a Canberra di impedire agli Stati federali di partecipare alla Belt and Road non ha aiutato a sgonfiare la tensione. Come spesso avviene, Pechino ha risposto alle provocazioni facendo leva sul proprio peso economico: all’introduzione di dazi su orzo e vino ha fatto seguito lo stop alle importazioni di carbone australiano. Secondo Bloomberg, oltre 70 navi cargo sono bloccate a largo delle coste cinesi con a bordo 1480 marinai e 8,1 milioni di tonnellate di carbone. Ma, si sa, le guerre commerciali non vedono mai un vincitore. Lo sanno bene le province del Zhejiang, Henan, Jiangxi e Hunan dove nelle ultime settimane una dozzina di città hanno imposto restrizioni sull’uso di elettricità. A Yiwu, dove viene realizzato il 60% degli addobbi natalizi, le fabbriche sono state costrette a ridurre l’orario di lavoro fino all’80%. Le autorità cinesi attribuiscono il deficit alla sostenuta ripresa industriale dopo la crisi epidemica. Ma, secondo diverse fonti del settore, l’embargo contro Canberra sta contribuendo ad aggravare la situazione. “Molte centrali elettriche locali dipendono dal carbone australiano a causa della sua maggiore efficienza e ora hanno difficoltà a trovare un’alternativa”, spiega al FT China Huadian Corporation. Consapevole dei rischi, Pechino sta correndo ai ripari. Lunedì è stato pubblicato un libro bianco sull’energia che rimarca la necessità di fare affidamento su “fonti diversificate e sicure per mantenere un equilibrio tra domanda e offerta”. E le rinnovabili – non i combustibili fossili – giocheranno un ruolo di primo piano. La grande novità è che per ottenere una maggiore autosufficienza energetica Pechino aprirà il mercato interno ai capitali stranieri, fatta eccezione per il settore nucleare. [fonte FT, Nikkei]
Le sanzioni americane contro la Cina colpiscono le aziende europee
Le aziende europee starebbero scontando il prezzo delle sanzioni contro Huawei, SMIC e gli altri colossi tecnologici cinese. L’accusa proviene da alcuni dirigenti e diplomatici europei che al FT hanno raccontato come, dopo l’inserzione delle big tech cinesi nell’entity list americana diverse aziende statunitensi, sudcoreane e giapponesi, hanno ottenuto le licenze necessarie per continuare a rifornire le società cinesi sotto regime sanzionatorio. Le limitazioni imposte da Washington prevedono limitazioni sull’export di tutti quei prodotti contenenti tecnologia americana anche se realizzati da paesi terzi. Il colpo di coda sta raggiungendo anche l’automotive del Vecchio Continente. Questo spiega l’iniziativa annunciata a inizio dicembre dalla Commissione europea per l’istituzione di un fondo dedicato alla ricerca nel settore dei processori e semiconduttori. “Quando si parla di Cina, le priorità degli Stati Uniti al momento sono sicurezza, sicurezza, sicurezza. I governi europei si preoccupano di altre cose: accesso al mercato, e definizione degli standard “, affermava tempo fa il ministro degli Esteri Ue Josep Borrell. Dall’inizio della trade war sino-americana Bruxelles ha cercato di mantenersi equidistante. E’ improbabile che l’arrivo di Biden cambi le cose. La disapprovazione del nuovo consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sallivan, nei confronti dell’imminente firma del trattato sugli investimenti bilaterali Cina-Ue sembra preannunciare nuove tensioni tra le due sponde dell’Atlantico.[fonte FT, Bloomberg]
Hong Kong: Pechino vuole sradicare l’opposizione dalla Commissione elettorale
Vi ricordate di Tsang Chi-kin, il 19enne di Hong Kong che durante le proteste lo scorso anno si beccò una pallottola nel petto? Pare fosse anche uno dei quattro manifestanti che a ottobre cercarono asilo presso il consolato americano venendo messi alla porta. E’ quanto ha raccontato il ragazzo al SCMP da un luogo segreto. Dopo essere stato arrestato con l’accusa di sommossa, Tsang – che era stato rilasciato su cauzione nell’attesa del processo – ha deciso di far perdere le proprie tracce temendo di diventare bersaglio di imputazioni ben più gravi ai sensi della nuova legge antisedizione. L’intervista fa inoltre luce sul voltafaccia delle autorità consolari americane, che stando al giovane inizialmente avevano assicurato il proprio supporto. Intanto sono sempre di più gli ex manifestanti a optare per l’esilio. Ultimo in ordine di tempo Nathan Law che recentemente ha rivelato di aver fatto domanda per lo status di rifugiato in Gran Bretagna. Il ragazzo ha motivato la scelta spiegando che è necessario sensibilizzare i paesi europei alla causa hongkonghese, ancora restii ad assumere misure drastiche sul genere degli Stati Uniti. Drastiche ma resta da vedere quanto efficaci. L’intrusione americana negli affari interni dell’ex colonia inglese non sembra aver ammorbidito la posizione di Pechino. Tutt’altro. Secondo il SCMP, dopo aver fatto fuori dal Consiglio Legislativo l’opposizione, il parlamento cinese sarebbe in procinto di ridimensionare drasticamente il peso dei consiglieri distrettuali – l’ultima roccaforte del fronte pro-democrazia – che siedono nella Commissione elettorale, l’organo che elegge il leader locale. [fonte scmp, SCMP]
L’economia cinese corre ma manca la manodopera
L’economia cinese ha ripreso a correre. Come durante la crisi del 2008, a trainare la crescita sono ancora una volta gli investimenti ma anche le esportazioni, salite al 13% del totale mondiale. La produzione di robot industriali, apparecchiature informatiche e circuiti integrati è ormai tornata ai livelli pre-epidemici grazie alla domanda dei paesi in cui le misure contro la pandemia costringono ancora molti cittadini a lavorare e studiare da remoto. La richiesta è tale che le fabbriche cinesi non sono più in grado di mantenere il passo. Secondo Reuters, a novembre, nella città di Jinhua c’erano più persone impiegate nel settore industriale di quante non ce ne siano mai state dal 2017 a oggi. Ma in altre località si fa fatica a trovare la manodopera necessaria, dopo i licenziamenti e la chiusura degli impianti a inizio anno. Quando la sorte dell’economia cinese era ancora incerta, molti lavoratori migranti hanno deciso di cercare lavoro vicino al luogo di origine e non sono più tornati indietro. Risultato: secondo dati della Renmin University, la domanda di operai ha raggiunto un record nel terzo trimestre. Gli stipendi per i dirigenti di fabbrica sono aumentati del 25% a 10.000 yuan (1.530 dollari) al mese, ben al di sopra del salario iniziale medio per i laureati. Per colmare le carenze alcune aziende hanno optato per assumere lavoratori temporanei per circa 18-19 yuan l’ora, il 20% in più rispetto a quanto offerto ai contrattualizzati a tempo pieno. [Reuters]
La Cina dice no ai supergrattacieli
Cinque dei 10 grattacieli più alti del mondo sono in Cina. In futuro non sarà più così. Secondo direttive annunciate lo scorso aprile, i governi locali dovranno limitare l’estensione verticale dei nuovi edifici per contenere le ricadute ambientali. Nello specifico il Ministero cinese per l’Edilizia abitativa e lo Sviluppo urbano-rurale ha severamente vietato la costruzione di grattacieli superiori ai 500 metri, mentre ha richiesto un controllo rigoroso delle costruzioni oltre i 250 metri. I 100 metri potranno essere superati solo quando strettamente necessario. In diverse province le amministrazioni locali hanno già provveduto ad adeguarsi vietando gli edifici troppo grandi e dispendiosi. Le nuove limitazioni tuttavia non sono l’unica causa del ridimensionamento. E’ il caso della tower di Tianjin China 117, cominciata nel 2008 e rimasta incompiuta dopo il fallimento della società incaricata di portare avanti i lavori. Sarebbe dovuto diventare il secondo grattacielo più alto del mondo dopo il Burj Khalifa di Dubai e invece passerà alla storia come uno degli edifici più alti rimasti incompiuti. [fonte Inkstone]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.