In Cina e Asia – Le tre richieste di Xi

In Notizie Brevi by Alessandra Colarizi

Anche Huawei sarà sul tavolo delle trattative, così come la rimozione delle tariffe e un ridimensionamento della somma che Pechino si impegnerà a versare per l’acquisto di nuovi prodotti americani. Secondo il WSJ, Xi Jinping avanzerà richieste ben precise quando domani incontrerà Trump a margine del G20 per tentare di disinnescare le tensioni commerciali. La sorte del colosso di Shenzhen, sottoposto a dure sanzioni che ne minacciano la sopravvivenza, pare sarà uno degli argomenti di discussione centrali, nonostante le lamentele dell’establishment statunitense, preoccupato per la strumentalizzazione di questioni di sicurezza nazionale nell’ambito delle trattative commerciali. Il precedente di ZTE suggerisce il possibile raggiungimento di un’altra tregua temporanea. Secondo quanto ammesso da Trump, il meeting di domani – se fruttuoso – porterà quantomeno alla sospensione del minacciato rincaro dei dazi. Ma la Cina sa bene potrebbe trattarsi di una vittoria effimera. E’ stato proprio poco dopo l’ultimo fruttuoso incontro al G20 di Buenos Aires che la CFO di Huawei è stata arrestata su richiesta di Washington mentre faceva scalo in Canada [fonte: CNBC]

Prima visita di Xi in Giappone

Cina e Giappone insieme per promuovere un “commercio libero ed equo”. Nella giornata di ieri Xi Jinping – alla sua prima visita in Giappone in qualità di presidente – ha affermato che le relazioni tra i due vecchi nemici hanno raggiunto “una nuova storica linea di partenza”. L’incontro tra i due leader, a margine del G20, suggella il lento processo di distensione avviato nel 2014 e culminato nella visita di Abe in Cina lo scorso ottobre. Il tempismo del riavvicinamento tra la seconda e la terza economia mondiale non è casuale. Entrambi i paesi si trovano a dover fronteggiare le minacce commerciali di Trump. Xi ha accettato di tornare per una visita di stato ufficiale la prossima primavera, quando i ciliegi saranno tutti in fiore. Ma sotto traccia rimangono le ostilità di vecchia memoria: l’occupazione nipponica è una ferita mai rimarginata, mentre le rivendicazioni territoriali di Pechino nel Mar cinese tengono ad alto regime l’attivismo militare del gigante asiatico nella regione [fonte: Scmp]

Doppia battuta d’arresto per la Belt and Road in Africa

Il National Environment Tribunal  ha fermato la costruzione della prima centrale elettrica a carbone del Kenya per motivi ambientali. Il progetto, di proprietà dell’Amu Power, vale 2 miliardi di dollari ed è previsto venga finanziato Commercial Bank of China nell’ambito della Belt and Road. Da tempo gli ambientalisti fanno resistenza. L’impianto infatti verrebbe edificato sulla costa dell’Oceano Indiano, circa 14 miglia a nord della città di Lamu, una destinazione turistica patrimonio mondiale dell’Unesco. Oltre ad inquinare l’aria, la centrale rischia di distruggere le mangrovie e l’habitat di specie in via di estinzione. Ma con una capacità di 1.050 MW riuscirebbe ad aumentare la produzione nazionale di elettricità di quasi il 50%, contribuendo a combattere i frequenti blackout e riducendo i costi dei consumatori. Un dilemma che accomuna molti paesi in via di sviluppo, attratti dai generosi finanziamenti cinesi ma intimoriti dalle ricadute finanziarie e ambientali.

L’inciampo in Kenya arriva in concomitanza con l’annuncio della sospensione del porto di Bagamoyo. Un progetto da 10 miliardi che avrebbe dovuto rendere la città della Tanzania lo scalo marittimo più grande dell’Africa orientale. Il presidente  John Magufuli ha motivato la decisione citando le “difficili condizioni di sfruttamento” dietro l’accordo [fonte: FT, Splash247]

Pechino studia la Brexit

Mentre Hong Kong si batte per difendere la propria autonomia, la banca centrale cinese studia la Brexit per valutare un’applicazione del modello europeo nella Greater Bay Area, una megaregione da 70 milioni di abitanti e un prodotto interno lordo di 1.500 miliardi di dollari che Pechino vuole rendere il polo dell’innovazione tecnologica mondiale entro il 2035. Una sfida enorme se si considera che l’area comprende il Guangdong, Hong Kong e Macao, regioni con sistemi fiscali, doganali e politici diversi tra loro. La riuscita del progetto dipende strettamente dalla libera circolazione di capitali e risorse. Quindi da un – improbabile – allentamento dell’ingerenza del governo centrale o da una rinuncia di Hong Kong e Macao alle loro “specificità”. Un nuovo report della Peple’s Bank of China valuta l’ide un “soft border” sul genere pianificato dall’Irlanda in vista della Brexit per mantenere un flusso libero di merci e persone tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord [fonte: Reuters]

Prigionieri di guerra fanno causa a Kim Jong-un

Dopo aver trascorso anni a lavorare nelle miniere nordcoreane, Han Jae-bo, 85 anni, e Ro Sahong, 90, si sono appellati a un tribunale di Seul per ottenere da Kim Jong-un 300.000 dollari di risarcimento. Catturati dai nemici durante la Guerra di Corea, i due sudcoreani sono stati condannati ai lavori forzati e in seguito spediti nelle miniere fino alla fuga, all’inizio degli anni 2000. La richiesta di vendetta apre un nuovo capitolo nella resa dei conti tra Nord e Sud. E’ infatti la prima volta che ex prigionieri di guerra decidono di farsi giustizia da soli dopo aver chiesto invano il supporto del governo di Seul. Mentre è improbabile che Han e Ro vedranno mai quei soldi, la giustizia sudcoreana potrebbe intervenire sugli 1,4 milioni di fee sul copyright per alcune riprese e altro materiale usato dai media e dagli editori sudcoreani. Dopo la firma dell’armistizio, circa 83.000 prigionieri sono rimasti nel Regno Eremita; 8300 sono stati restituiti al Sud, mentre altri 80 sono riusciti a scappare. Ventisei di loro sono ancora vivi, secondo l’associazione Mulmangcho [fonte: WSJ]

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