Un nuovo episodio rischia di alimentare la tensione tra Canberra e Pechino. Il governo federale australiano ha annullato l’accordo di adesione alla Belt and Road Initiative tra lo Stato di Victoria e la Cina siglato nel 2018 e 2019. Architetto della decisione del governo australiano è il ministro degli Esteri, Marise Payne, che ha spiegato come l’intesa sia “incompatibile con la politica estera australiana e contraria alle relazioni internazionali”. Il capo della diplomazia australiana ha fatto leva su nuove leggi federali, entrate in vigore lo scorso anno, secondo cui le autorità federali hanno il diritto di veto sugli accordi tra governi statali e Paesi stranieri. Nel dettaglio, Payne ha annullato un memorandum d’intesa non vincolante e un “accordo quadro” firmato tra lo stato del Victoria e la Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma della Cina nel 2018 e nel 2019. L’intesa, voluta dal premier di Victoria Daniel Andrews, avrebbe aperto a investimenti cinesi nello Stato australiano e avrebbe consentito alle compagnie locali di partecipare a progetti governativi cinesi all’estero nel quadro della Nuova via della seta. La misura adottata da governo federale guidato da Scott Morrison non è stata accolta con favore dal Partito comunista cinese. In una nota, l’ambasciata cinese in Australia considera la cancellazione dell’accordo una provocazione, e rischia di compromettere ulteriormente le relazioni sino-australiane. I rapporti con la Cina sono peggiorati nel corso dell’ultimo anno, quando Canberra aveva annunciato il ricorso all’Organizzazione Mondiale del Commercio contro i dazi doganali imposti da Pechino alle sue esportazioni di prodotti, come vino, cereali e carne. [fonte SCMP]
Tesla nel mirino dei consumatori cinesi
Tesla rischia di perdere la fetta di mercato di auto elettriche più redditizio al mondo: la Cina, che rappresenta il 30% delle vendite globali dell’azienda statunitense. La casa automobilistica di Elon Musk ha ricevuto richiami da due enti governativi cinesi per il trattamento riservato ai consumatori. Il colpo, l’ennesimo, è arrivato dopo che la società è stata al centro di una protesta al Salone dell’Auto di Shanghai lunedì, quando una donna è salita su un veicolo da esposizione e ha raccontato, con toni disperati, che stava per morire a causa del malfunzionamento dei freni del suo veicolo elettrico. Il primo ammonimento è arrivato martedì, quando l’agenzia di stampa statale cinese Xinhua ha pubblicato un articolo con cui si afferma che la qualità dei veicoli marchiati Tesla deve soddisfare le aspettative del mercato per conquistare la fiducia dei consumatori, ormai compromessa dopo i diversi incidenti registrati dai consumatori. Il secondo avviso è arrivato direttamente dalla Commissione per gli affari politici e legali del Comitato centrale del Partito comunista cinese, che ha pubblicato un commento sul suo account WeChat con cui chiede a Tesla di rispettare i consumatori cinesi e le leggi nazionali. Per difendere la sua posizione nel mercato cinese, Tesla si è scusata con i clienti. Le scuse però potrebbero non bastare per recuperare la fiducia dei consumatori, che sui social alimentano il dibattito contro la casa automobilistica. Inoltre, i media statali hanno diffuso la notizia di un decesso di un uomo, avvenuto lo scorso 13 aprile a Guangzhou: l’autovettura della vittima ha preso fuoco dopo che si è scontrata contro il guard rail. L’azienda di Elon Musk è entrata nel mercato cinese nel 2019, quando ha aperto la Shanghai Gigafactory 3 con il sostegno del governo cinese. Tutto è iniziato il 13 luglio 2018, quando Tesla ha firmato un accordo con il governo municipale di Shanghai per costruire la sua prima fabbrica in Cina, aperta in pochi mesi. Dopo un anno, è stato consegnato il primo lotto di Model 3 in Cina e qualche mese più avanti i veicoli elettrici di fabbricazione cinese sono stati spediti in Asia e in Europa. Un modello di crescita economica che, però, nasconde i suoi fantasmi. Secondo PingWest, le parti difettose comparse in fase di produzione e assemblaggio del veicolo sono scomparse dai registri di controllo della qualità. Tesla, infatti, starebbe facendo il possibile per raggiungere l’obiettivo di produzione, compreso l’abbassamento dei suoi standard di qualità. Il più grande produttore mondiale di veicoli elettrici ha ottenuto vantaggi che altre società internazionali hanno faticato a ottenere, tra cui agevolazioni fiscali, prestiti a basso costo e il permesso di possedere interamente le proprie attività nazionali. [fonte Reuters, GT, PingWest]
Lobbisti di Hong Kong a Washington per influenzare i politici americani
Il governo di Hong Kong ha speso 84 milioni di dollari locali (circa 9 milioni di euro) per bloccare l’approvazione dell’Hong Kong Human Rights and Democracy Act da parte del Congresso Usa. Lo riporta l’Hong Kong Free Press, secondo cui dal 2014 al 2019 le autorità dell’ex colonia britannica hanno esercitato pressioni su funzionari americani per non far passare la legge, approvata invece a stragrande maggioranza dal Senato e dalla Camera dei rappresentanti nel novembre 2019. Secondo la testata locale, tra i lobbisti pagati dall’Hong Kong Trade Development Council (HKTDC) ci sono anche ex parlamentari di Washington, che hanno organizzato almeno sei incontri con deputati e senatori di Capitol Hill tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015 e di nuovo nel settembre 2019. Per operare legalmente negli Stati Uniti, l’HKTDC e le società di lobbying devono registrarsi come “agenti stranieri” ai sensi del Foreign Agents Registration Act. La legge richiede che entità e individui stranieri negli Stati Uniti rivelino le loro spese e attività che possono influenzare qualsiasi segmento del pubblico americano, sia esso politico o meno. Secondo l’HKFP i lobbisti hanno dichiarato di impegnarsi in “attività politiche” per conto dell’agenzia. Sebbene i contratti di impegno siano stati firmati dall’HKTDC, i lobbisti hanno ricevuto istruzioni dall’Hong Kong Economic and Trade Office (HKETO) a Washington DC. A differenza dell’HKTDC, che è un organo statutario, l’HKETO è il rappresentante ufficiale della Regione amministrativa speciale negli Stati Uniti. L’HKTDC ha difeso le attività di lobby sostenendo che esse servivano solo a spiegare agli interlocutori Usa la situazione nella città e a esprimere contrarietà all’Hong Kong Human Rights and Democracy Act. [fonte HKFP]
Myanmar, sono 250mila gli sfollati
Non si placano le proteste in Myanmar contro la giunta militare, con gli attivisti che adottano nuovi simboli. Nella giornata di ieri, i manifestanti sono scesi in strada per chiedere il rilascio dei prigionieri detenuti dalla giunta, indossando magliette blu e mostrando il nome di un detenuto scritto sulla propria mano. Le magliette, infatti, sono un omaggio all’attivista pro-democrazia Win Tin, morto il 21 aprile 2014 dopo una prigionia di 19 anni. Secondo l’Associazione di assistenza per i prigionieri politici (Aapp), 738 persone sono state uccise dai militari e 3.300 persone sono attualmente detenute, di cui 20 condannate a morte. Il numero però dei detenuti potrebbe aumentare in poco tempo, includendo i medici e operatori sanitari. Secondo i media locali, almeno 139 camici bianchi possono finire in carcere solo perché hanno aderito al Movimento di Disobbedienza Civile, prendendo parte a scioperi nazionali, o semplicemente perché curano i manifestanti, vittime delle violenze dei militari. I medici del Myanmar hanno subito attacchi di routine da parte della giunta da quando è stato lanciato il colpo di stato, con i militari che hanno fatto irruzione nelle cliniche, sparato alle ambulanze, picchiato e arrestato medici. Physicians for Human Rights, una ONG con sede negli Stati Uniti che ha monitorato gli abusi contro gli operatori sanitari, ha detto che dal 13 aprile sono stati arrestati 160 medici. Ma le brutalità della giunta provocano, come estrema conseguenza, anche lo sfollamento di centinaia di migliaia di persone. Lo denuncia il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Myanmar, Tom Andrews, secondo cui la repressione delle forze armate contro i manifestanti ha provocato circa 250 mila sfollati, in particolare nella zona di confine del Myanmar con la Thailandia.
La critica situazione politica e sociale nel paese sarà il tema dell’atteso summit d’emergenza dell’Asean, che si terrà domani a Giacarta, in Indonesia. All’incontro è atteso anche l’attuale capo del governo a guida militare del Myanmar, il comandante Min Aung Hlaing, mentre è incerta la presenza dei membri del governo di unità nazionale (NUG) formato da oppositori della giunta. [fonte Reuters, Guardian, NIKKEI]
Sanseverese, classe 1989. Giornalista e videomaker. Si è laureata in Lingua e Cultura orientale (cinese e giapponese) all’Orientale di Napoli e poi si è avvicinata al giornalismo. Attualmente collabora con diverse testate italiane.