L’Ofcom, l’autorità di regolamentazione dei media britannica, ha revocato la licenza all’emittente televisiva cinese di stato CGTN dopo aver concluso che il Partito comunista ne detiene il controllo finale. “La nostra indagine ha mostrato che a mantenere la licenza per il China Global Television Network [il canale internazionale della CCTV] è un’entità che non ha alcun controllo editoriale sui suoi programmi”, ha spiegato l’Ofcom. La decisione rischia di amplificare l’escalation tra il Regno Unito e Pechino, già ai ferri corti per via dell’estromissione di Huawei dal 5G britannico e l’emissione di passaporti speciali ai cittadini d’oltremare residenti a Hong Kong. La CGTN era nel mirino da tempo. L’anno scorso era già stata accusata di aver violato il principio di imparzialità nella copertura delle proteste di Hong Kong. Altri reclami sull’equità e la privacy sono ancora in fase di studio e non è escluso comportino ulteriori sanzioni. E’ l’inizio di una guerra mediatica? Non è escluso. Una recente inchiesta del Telegraph sostiene che nell’ultimo anno tre giornalisti cinesi siano stati espulsi dal Regno Unito per presunti legami con il ministero della Sicurezza dello Stato cinese. Pechino da parte sua non ha gradito i recenti servizi della BBC sull’epidemia e le violazioni dei diritti umani nello Xinjiang. Poco dopo l’annuncio dell’Ofcom, il ministero degli Esteri cinese ha affermato di aver presentato “dichiarazioni severe” all’emittente d’oltremanica per aver diffuso “notizie false” sulla gestione del Covid-19 in Cina. Il governo cinese è in attesa di scuse formali. Intanto su Weibo c’è già chi ne chiede l’espulsione dal paese. [fonte Reuters, Reuters,]
Biden: “affronteremo gli abusi della Cina”
La Cina sarà al centro della politica estera di Joe Biden. Lo si era capito dalle affermazioni rilasciate nei giorni scorsi dal nuovo esecutivo. Il presidente ha provveduto a ribadirlo ieri nel suo primo discorso al dipartimento di Stato in cui ha definito il gigante asiatico “il più serio rivale”. Letteralmente: “affronteremo gli abusi economici della Cina, contrasteremo le sue azioni aggressive e coercitive e respingeremo l’attacco della Cina ai diritti umani, alla proprietà intellettuale e alla governance globale”. Sembra di sentire Trump se non fosse per un ritorno conclamato ai tavoli multilaterali. “Competeremo da una posizione di forza, ricostruendo meglio a casa, lavorando con i nostri alleati e partner, rinnovando il nostro ruolo nelle istituzioni internazionali e rivendicando la nostra credibilità e autorità morale, molte delle quali sono andate perse”, ha sentenziato il nuovo inquilino della Casa Bianca. Ma quella proposta non è una chiusura ermetica al dialogo. “Siamo pronti a lavorare con Pechino, quando è nell’interesse dell’America farlo”, ha aggiunto Biden. Cosa aspettarsi dunque? Qualche suggerimento lo si trova nella composizione della squadra messa in piedi dal nuovo presidente.
La strategia di Biden per la Cina sarà gestita da un gruppo variegato di politici dalla grande esperienza diplomatica, molti dei quali hanno già lavorato insieme sotto l’amministrazione Obama. Il team selezionato dal neopresidente è composto da funzionari definiti “fratelli rivali” per il loro diverso approccio alla Cina. Eventuali spaccature tra i vari esperti nel team sono da attendersi per quanto riguarda i temi di diritti umani e politica industriale, che già in passato hanno creato frizione tra i funzionari dei dipartimenti di economia e quelli della sicurezza nazionale. Tra questi ultimi, per esempio, l’ex segretario di stato John Kerry punta a un accordo internazionale sul clima e necessita la collaborazione di Pechino, mentre il coordinatore per l’Asia Kurt Campbell preferirebbe un approccio più risoluto nelle releazioni con il dragone. Starà al capo del consiglio per la sicurezza nazionale (NSC) Jake Sullivan riuscire a far convergere i vari dipartimenti statali e unificarli sul fronte Cina con una politica uniforme. La strategia per la Cina è ancora nella sua fase embrionale, ma fino ad ora sembra chiaro che Biden prediligerà un approccio forte, investendo molto in tecnologia avanzata e cercando alleati democratici in quello che ha definito “un fronte unito contro Pechino”. [fonte SCMP, Axios, WSJ]
Studiare il “pensiero di Xi” fin dalle elementari
Il Comitato centrale del partito ha emesso nuove linee guida per promuovere l’educazione ideologica tra i Giovani Pionieri Cinesi, un’organizzazione giovanile nazionale fondata nel 1949 che comprende quasi tutti i bambini cinesi di età compresa tra i sei ei 14 anni. Stando alle disposizioni, tutti i bambini della scuola primaria e quelli iscritti ai primi due anni della scuola secondaria devono partecipare a una lezione ideologica alla settimana. Il materiale per il personale docente sarà incentrato sul “pensiero di Xi Jinping”. Nello specifico i membri dei Giovani Pionieri dovranno “tenere fermamente a mente” gli insegnamenti del presidente e “fare ciò che Xi ha insegnato”. Il documento esorta a insegnare ai bambini che “la vita felice di oggi proviene in ultima analisi dalla corretta leadership del Partito”, nonché “dalla superiorità del nostro sistema socialista”. Rafforzare “l’illuminazione politica e la formazione dei valori” tra i bambini è di importanza strategica per trasmettere i “geni rossi di generazione in generazione”, spiegava ieri il People’s Daily commentando le nuove linee guida. Un concetto ripreso anche dal China Daily, secondo il quale i bambini sono il futuro della nazione e del Partito Comunista. Le linee guida richiedevano anche la promozione degli scambi tra i Giovani Pionieri cinesi e le organizzazioni giovanili di Hong Kong, Macao e Taiwan, in modo da formare l ‘“identità nazionale, etnica e culturale” dei più piccoli in queste aree. Contestualmente nell’ex colonia inglese, il ministero dell’Istruzione ha annunciato che gli studenti verranno introdotti al concetto di “sicurezza nazionale” fin dalla scuola primaria con l’insegnamento dei reati perseguibili con la nuova legge antisedizione, dei principi della Basic Law e del motto “un paese, due sistemi”.
Aperta e chiusa “l’ambasciata” taiwanese nella Guyana
A 24 ore dall’annuncio dell’apertura, il nuovo ufficio di rappresentanza taiwanese nella Guyana è stato chiuso a causa delle pressioni cinesi. Secondo il ministero degli Esteri taiwanese, la decisione è stata presa unilateralmente dal governo del paese sudamericano a causa del “bullismo” cinese. “Esprimiamo la nostra più forte insoddisfazione e condanna per il governo cinese che ancora una volta comprime lo spazio internazionale di Taiwan e la sua partecipazione agli affari internazionali”, ha dichiarato il dicastero. Nella giornata di giovedì le autorità guyanesi avevano spiegato che lo scopo dell’ufficio era quello di promuovere il commercio e gli investimenti nella capitale Georgetown per “creare spazio” al settore privato. Avevo perà aggiunto che “la Guyana non riconosce Taiwan come stato indipendente. La Guyana non sta stabilendo relazioni diplomatiche con Taipei “. Ma l’apertura di quella che di fatto Taipei considera “un’ambasciata”, in Cina, è stata recepita come un dito in un occhio. Presentandola come una mossa strategica, il ministero degli esteri taiwanese aveva precisato che la Guyana “è un paese con ricche risorse minerarie e petrolifere e la sua capitale Georgetown è sede del segretariato per la Comunità caraibica.” Negli ultimi anni, l’isola democratica – considerata da Pechino “una provincia” – ha assunto un’inedita centralità nelle dinamiche indo-pacifiche grazie (o a causa) del corteggiamento spericolato di Trump. Nelle stesse ore in cui infuriava il caso Guyana, l’amministrazione Biden ha rilasciato un comunicato per riaffermare la propria fedeltà al principio “una sola Cina”, sebbene il termine in realtà assuma significati diversi sulle due sponde del Pacifico. [fonte Reuters, SCMP]
L’Onu chiede il rilascio di Aung San Suu Kyi
Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha chiesto il rilascio di Aung San Suu Kyi e degli altri membri della Lega nazionale per la democrazia arrestati lunedì dopo il colpo di mano dei militari. Il comunicato congiunto – un appello più che una condanna – sottolinea “la necessità di sostenere istituzioni e processi democratici, astenersi dalla violenza e rispettare pienamente i diritti umani, le libertà fondamentali e lo stato di diritto”. Viene inoltre incoraggiato il perseguimento del dialogo e della riconciliazione in conformità con la volontà e gli interessi del popolo del Myanmar”. I toni sono decisamente meno accesi se paragonati alla prima bozza proposta dalla Gran Bretagna e bloccata da Cina e Russia. Nel testo finale non vi è più alcun riferimento al colpo di stato ordito dal generale Min Aung Hlaing e dai suoi uomini. “In qualità di vicino amichevole del Myanmar, la Cina spera che tutte le parti in Myanmar metteranno al primo posto le aspirazioni e gli interessi della gente”, ha spiegato il ministero degli Esteri cinese. Non è la prima volta che il gigante asiatico prende le difese di Nayipidaw in sede Onu. [fonte Reuters]
Direttore del Comitato olimpico nipponico accusato di sessismo
Yoshiro Mori, il direttore del Comitato organizzatore delle Olimpiadi di Tokyo 2020 (JOC), si è scusato per aver fatto osservazioni sessiste sulle donne “loquaci”, ma ha escluso di dare le dimissioni. L’ex primo ministro giapponese, non nuovo alle polemiche, mercoledì ha giustificato il numero esiguo di quote femminili nel Comitato affermando che quando ci sono troppe donne le riunioni tendono a “trascinarsi” a causa della parlantina delle partecipanti. L’affermazione non ha mancato di suscitare accese polemiche sui social e anche a casa Mori, tanto che dopo le critiche di moglie, figlia e nipote il funzionario nipponico ha chiesto pubblicamente scusa per le osservazioni “incuranti”. L’uscita infelice va in controtendenza rispetto all’impegno dedicato dal JOC nel migliorare la rappresentanza femminile raddoppiando la percentuale di donne nel suo consiglio di amministrazione al 40% del totale. Nonostante quanto promesso dall’amministrazione Abe, il Giappone si classifica ancora 121esimo su 153 paesi nel rapporto 2020 sul divario di genere del World Economic Forum. [fonte Guardian]
Ha collaborato Lucrezia Goldin
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Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.