La maratona europea di Biden si è conclusa con uno schiaffo finale alla Cina. L’occasione è arrivata nella giornata di ieri, durante un incontro con i leader Ue, Ursula von der Leyen e Charles Michel. Il meeting – che ha sancito la sospensione per cinque anni delle tariffe incrociate tra Washington e Bruxelles e la risoluzione dell’annosa disputa Boeing-Airbus, è stato suggellato dal lancio del EU-US Trade and Technology Council (TTC), framework pensato per permettere a Stati Uniti e Unione europea di “coordinare i rispettivo approcci alle questioni chiave del commercio globale, economiche e tecnologiche e per approfondire il commercio transatlantico e le relazioni economiche basate su valori democratici condivisi.” Spicca l’importanza attribuita ai semiconduttori e alla sicurezza della supply chain. Mentre il comunicato europeo utilizza un linguaggio neutro, la versione di Biden esprime chiaramente la volontà di “contrastare le pratiche non di mercato cinesi che danno alle aziende cinesi un vantaggio sleale”. Nonostante l’approccio più conciliante di Bruxelles, il comunicato congiunto condanna senza giri di parole la strategia coercitiva dispiegata da Pechino per difendere la propria sovranità nazionale dai confini occidentali alle isole contese. Letteralmente: “Intendiamo continuare a coordinarci sulle nostre preoccupazioni comuni, comprese le continue violazioni dei diritti umani nello Xinjiang e in Tibet; l’erosione dell’autonomia e dei processi democratici a Hong Kong; coercizione economica; campagne di disinformazione; e questioni di sicurezza regionale. Rimaniamo seriamente preoccupati per la situazione nei mari della Cina orientale e meridionale e ci opponiamo fermamente a qualsiasi tentativo unilaterale di cambiare lo status quo e aumentare le tensioni”. Ancora una volta Taiwan si è conquistata una menzione speciale, come avvenuto pochi giorni fa al termine del G7: Ue e Stati uniti “incoraggiano la risoluzione pacifica delle questioni attraverso lo Stretto”. Un monito a cui proprio ieri la Cina ha risposto inviando 28 aerei nella zona d’identificazione di difesa aerea di Taipei, un nuovo record dopo giorni di relativa calma.
Davanti all’offensiva del blocco atlantico Pechino e Mosca fanno quadrato. Almeno a telecamere accese. Intervistato dall’emittente americana NBC, Putin ha dichiarato che le relazioni con la Cina – nonostante qualcuno stia tentando di “distruggerle” – rimangono a un “livello senza precedenti”. “La Cina è una nazione amichevole. Non ci ha dichiarato nemici, come hanno fatto gli Stati Uniti”, ha aggiunto il capo del Cremlino. Alla vigilia dell’atteso incontro con Biden sono rassicurazioni necessarie. Descritta spesso come “un’alleanza”, la partnership tra i due giganti è percorsa da vecchie rivalità e sospetti reciproci. Ricucire le relazioni con Washington aiuterebbe la Russia a preservare una distanza di sicurezza dal gigante asiatico. Almeno sulla carta, perché se è vero che Mosca non si fida totalmente della Cina, il grado di fiducia nei confronti di Washington è certamente inferiore. [fonte ECeuropa, SCMP SCMP, Guardian]
BRI: Cancellati o sospesi oltre la metà dei progetti cinesi a carbone
Anche la nuova via della seta si adegua alle ambizioni green di Pechino. Negli ultimi sei anni oltre la metà delle centrali a carbone finanziate dalla Cina all’estero. Lo rivela uno studio del think tank International Institute of Green Finance, secondo il quale dei 52 progetti esteri avviati tra la metà del 2014 e la fine dello scorso anno, 25 sono stati sospesi e otto definitivamente cancellati. Solo un progetto – una centrale elettrica costruita a Kalapara, in Bangladesh – è entrato in funzione. Il valore complessivo dei progetti archiviati o annullati ammonta a oltre 65 miliardi di dollari. Segno – dicono gli esperti – che i costi e i rischi relativi ai progetti inquinanti sono aumentati laddove la spesa richiesta per produrre energia pulita (soprattutto con il solare) è diminuita sensibilmente. Proprio sull’ecologically correct si gioca la competizione tra la Belt and Road cinese e le varie imitazioni a guida occidentali. Nel weekend il G7 si è concluso con l’annuncio di un piano infrastrutturale green ed economicamente sostenibile per fornire un’alternativa ai paesi emergenti più indebitati. Ma l’assenza di dettagli in merito si aggiunge alle perplessità sulle reali disponibilità economiche delle potenze democratiche. [fonte Bloomberg]
Dati distorti e flussi migratori
Si è parlato molto del calo delle nascite e del rapido invecchiamento della popolazione cinese. Ma nell’ultimo censimento sono riscontrabili altri trend demografici ugualmente degni di interesse. Nie Riming, ricercatore del Shanghai Institute of Finance and Law, ad esempio ha rilevato una discrepanza nei dati sui flussi migratori interni. Secondo le ultime statistiche ufficiali, 493 milioni di persone, in Cina, vivono al di fuori delle township o in strade diverse rispetto a quelle in cui sono ufficialmente registrati. 55 milioni in più rispetto a quanto evidenziato dal precedente censimento del 2010. Di questi, circa 117 milioni di persone vivono in parti delle città che non sono quelle dove risultano registrati, mentre i restanti 376 milioni sono emigrati ancora più lontano; 124 milioni hanno lasciato le loro province o regioni di origine. Come spiega l’esperto, il primo elemento da considerare è che la popolazione fluttuante non sta diminuendo. Tutt’altro. In secondo luogo, i dati suggeriscono che più migranti stanno optando per trasferimenti a breve distanza. Secondo il censimento del 2020, sono circa 251 milioni le persone ad aver scelto di spostarsi all’interno delle loro province d’origine, quasi il doppio rispetto al 2010. Nell’ultimo decennio, il numero di chi invece è rimasto all’interno della stessa città è addirittura triplicato. Ma soprattutto, i dati del censimento contraddicono nettamente i risultati di altri sondaggi meno rappresentativi condotti negli ultimi dieci anni. Rilevamenti del 2015, per esempio, evidenziarono solo un leggero aumento della popolazione migrante, mentre negli anni a seguire si parlò di un rallentamento dei flussi migratori verso la costa orientale dopo decenni di crescita esplosiva. I lavoratori migranti stanno ritornando nelle loro città d’origine, pronosticarono al tempo gli esperti. Alla luce del nuovo censimento non sembra essere esattamente così. E’ ancora troppo presto per dire se i numeri sballati abbiano inciso irreparabilmente sulla valutazione dei policymaker. Ma, secondo Nie Riming, “gli errori di calcolo dei cinque anni precedenti sono destinati a incidere sulla fornitura di servizi pubblici ai residenti urbani nei prossimi cinque anni e solo un’azione rapida da parte degli organi competenti può affrontare il problema e aiutare le città di destinazione a fronteggiare la crescita inaspettata della popolazione fluttuante”. [fonte Sixth Tone]
La Commissione per la supervisione nazionale sempre più potente
Vi ricordate la famigerata Commissione per la supervisione nazionale? Fu creata nel 2018 con lo scopo conclamato di rendere più “trasparente” la campagna anticorruzione di Xi Jinping, ponendo la Commissione disciplinare del partito sotto la guida del nuovo organo, statale e pertanto sottoposto alle leggi nazionali. Quasi contestualmente fu predisposta l’abolizione del controverso shanggui, processo disciplinare condotto in segreto, in cui in genere i soggetti venivano isolati e privati di qualsiasi forma di consulenza legale o anche delle visite dei familiari. A tre anni di distanza l’Economist scrive che in realtà la Commissione di supervisione, anziché contenere il potere del partito ne ha ampliato il margine di manovra. Non solo perché la nuova agenzia è incaricata di indagare su chiunque eserciti il “potere pubblico”: dipendenti statali, presidi, dirigenti ospedalieri e capi di aziende statali. Persino il personale di aziende straniere coinvolte in joint venture con partner cinesi statali. Entro breve la cornice normativa verrà rafforzata con l’inclusione di nuove regole che espandono ulteriormente i poteri dei funzionari anticorruzione. Ma, soprattutto, non esiste un meccanismo di controllo esterno sulle attività della nuova Commissione: ergo, nessuno controlla i supervisori. Le nuove regole sono state sottoposte a consultazione pubblica fino al 15 giugno, ma non è chiaro se e quando verranno divulgate. [fonte Economist]
La Cina “potenza museale” entro il 2035
La Cina punta a diventare una “potenza museale” entro il 2035. La nuova missione – annunciata il mese scorso – consiste nel trasformare una quindicina di musei in strutture espositive “di classe mondiale”. Negli ultimi anni, i musei sono spuntati come funghi in tutto il territorio nazionale. Tanto che se nel 2000 se ne contavano meno di 1.200, alla fine dello scorso anno erano quasi cinque volte di più. Un’espansione a cui, a partire dal 2008, ha contribuito la decisione di consentire l’ingresso gratuito alla maggior parte dei musei statali. Con il risultato che alla fine del 2019 il numero annuo delle visite era più che quadruplicato: ben 1,2 miliardi. Mentre alcuni musei spiccano per virtuosismo architettonico, la roadmap ha chiare finalità politiche. Non solo perché si sovrappone temporalmente all’arco temporale entro cui Pechino punta a “realizzare sostanzialmente la modernizzazione socialista”. Secondo le linee guida, il partito dovrà esercitare “una leadership a tutto tondo nello sviluppo” del progetto. Cosa questo voglia dire è facilmente intuibile. Negli ultimi tre anni sono stati aperti due nuovi musei dedicati alle rivendicazioni territoriali sulle isole contese nel Mar Cinese Meridionale e Orientale, mentre l’anno scorso il Museo nazionale di Pechino ha allestito una mostra su Taiwan, l’isola che Pechino considera una provincia ribelle di riconquistare. Resta solo un dubbio: come conciliare l’afflato patriottico con il suffisso “- di classe mondiale”. [fonte Economist]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.