I titoli di oggi:
- Cina: un governo completamente digitale entro il 2035
- Cina: campagna di 100 giorni per migliorare la sicurezza pubblica
- Pechino rivede la legge antitrust
- Washington e alleati lanciano un’iniziativa per aiutare le isole del Pacifico
“Linee guida per rafforzare la costruzione del governo digitale”: è il documento programmatico pubblicato giovedì scorso dal Consiglio di Stato cinese per costruire un sistema di governo completamente informatizzato. Obiettivo: aiutare il governo a elaborare politiche di governance accurate ed efficienti entro il 2035. Sebbene il documento non fornisca dettagli, Pechino sembrerebbe voler utilizzare la tecnologia per ottenere migliori risultati nella governance. Un obiettivo chiave sarà l’analisi dei “big data” per migliorare la gestione macroeconomica dell’economia nazionale. Sebbene esistano dibattiti sulla misura in cui i governi possono prevedere le attività e le tendenze economiche sulla base dei dati, il governo cinese è stato da sempre ben disposto ad applicare i big data al suo modello di governance economica.
Un’altra area chiave della governance digitale sarà poi la sicurezza e il controllo sociale: la Cina renderà il suo sistema “più intelligente” e rafforzerà la sua piattaforma di big data di pubblica sicurezza per “prevedere” e “prevenire” i rischi sociali. La Cina mira anche a potenziare ulteriormente il programma “Sharp Eyes“, o Xueliang Project, un enorme sistema di sorveglianza guidato dallo stato. Infine, sarà rafforzato l’uso da parte del governo cinese delle tecnologie digitali in aree come la sorveglianza e il credito sociale sarà rafforzato, già motivo di critiche in patria e all’estero per la violazione della privacy dei cittadini cinesi da parte del governo.
Su questo secondo aspetto fa luce un’inchiesta pubblicata ieri dal New York Times. Il quotidiano della Grande Mela riporta i dettagli di queste tecnologie di sicurezza emergenti, che sono descritte principalmente come software di polizia, dotati di intelligenza artificiale, in grado di sfruttare le riserve di dati a livello nazionale per consentire alla polizia di operare con opacità e impunità. Tra le tecnologie più utilizzate dalle autorità cinesi vi sono quelle basate sulla geolocalizzazione ed il riconoscimento facciale: Megvii, una startup di intelligenza artificiale, ha dichiarato ai media statali cinesi che il suo sistema di sorveglianza potrebbe fornire alla polizia un motore di ricerca per il crimine, analizzando enormi quantità di filmati per intuire modelli comportamentali e avvertire le autorità di comportamenti sospetti. Ad esempio, se le telecamere rilevassero una persona che trascorre troppo tempo in una stazione ferroviaria, il sistema la segnalerebbe alle autorità come possibile borseggiatore. Tecnologie simili sono già in uso: nel 2022, la polizia di Tianjin ha acquistato da Hikvision un sistema per prevedere le proteste basandosi sulla localizzazione dei petizionisti cinesi, un termine generico che descrive le persone che tentano di sporgere denuncia contro i funzionari locali alle autorità centrali.
Cina: campagna di 100 giorni per migliorare la sicurezza pubblica
La Cina ha lanciato una campagna di 100 giorni che, secondo il ministero della Pubblica Sicurezza, dovrebbe migliorare la sicurezza pubblica. L’annuncio arriva due settimane dopo il brutale attacco contro un gruppo di donne per le strade della città di Tangshan, nel nord della Cina, che ha suscitato proteste a livello nazionale. Le autorità “massimizzeranno la presenza delle forze di polizia a livello di municipale e di comunità” per rafforzare la protezione di donne, bambini e anziani, ha annunciato sabato il dicastero, nella speranza di placare la microcriminalità in vista del 20° Congresso del Partito Comunista. Il ministero ha affermato in un avviso che collegherà la polizia e le pattuglie della polizia armata attraverso un meccanismo di risposta rapida che permetterà di intervenire in cinque minuti. I poteri civili saranno inoltre mobilitati per prendere di mira i crimini di strada tipici del periodo estivo, mentre verranno intensificati anche i pattugliamenti notturni e i controlli su armi ed esplosivi.
La campagna sarà guidata dal nuovo ministro della Sicurezza Pubblica, Wang Xiaohong. Stella nascente della politica cinese, Wang promuoverà la visione della sicurezza nazionale di Xi Jinping, dando nuova forza alla lotta alla corruzione tra le forze dell’ordine. Wang è il primo ufficiale di polizia professionista a guidare il ministero in 24 anni e, a differenza dei suoi quattro predecessori, non è mai stato un alto funzionario provinciale. Vicinissimo al presidente cinese, Wang era a capo di un sottodistretto dell’ufficio di polizia a Fuzhou, la capitale della provincia del Fujian, quando Xi era segretario del partito locale. Dopo un avanzamento di carriera, Wang è diventato vice capo della pubblica sicurezza del Fujian, proprio mentre Xi era governatore della provincia, tanto che fonti del SCMP sostengono sia stato anche responsabile della sicurezza personale del leader. Nel 2015, Wang è diventato il capo della polizia di Pechino, per poi essere rapidamente promosso vice ministro della pubblica sicurezza.
La nomina di Wang, ufficializzata venerdì, era ampiamente prevista dopo che a novembre era già stato nominato capo del partito del Ministero della Pubblica Sicurezza. Come i precedenti capi della pubblica sicurezza, anche Wang dovrebbe diventare consigliere di stato dopo le “due sessioni”, o lianghui, gli incontri politici di marzo.
Pechino rivede la legge antitrust
I legislatori cinesi hanno approvato modifiche alla legge antitrust del paese, entrata in vigore nel 2008. Sebbene il testo integrale della legge non sia ancora stato reso pubblico, stando all’ultima bozza datata ottobre 2021, le modifiche rimetteranno i giganti della tecnologia cinese sotto lo scrutinio della leadership cinese, che si era inizialmente dimostrata disposta ad allentare la pressione sulle aziende tech. Gli emendamenti proposti aumenteranno significativamente le sanzioni per le società che non segnaleranno fusioni e acquisizioni alle autorità di regolamentazione. Nei casi in cui la mancata divulgazione danneggi l’ambiente competitivo, la multa più alta sarà equivalente al 10% delle entrate dell’anno precedente, superando così la barriera dei 500 000 yuan prevista dalla legge del 2008. Anche se si ritiene che la mancata segnalazione non danneggi la concorrenza, il tetto della sanzione viene comunque aumentato di dieci volte a 5 milioni di yuan. Già l’anno scorso Alibaba, insieme a Tencent Holdings, Baidu e Didi, era stata multata per non aver riportato le sue acquisizioni, ed ora le autorità applicheranno un controllo più approfondito su tutte le operazioni di M&A che coinvolgono i settori del benessere pubblico, la finanza, la scienza e la tecnologia ed i media.
Mentre imbriglia le big tech, Pechino cerca di sostenere le piccole e medie imprese nell’ambito dell’iniziativa di “prosperità comune”, baluardo delle politiche socioeconomiche del presidente Xi Jinping. Le imprese la cui quota di mercato scenderà al di sotto di una certa soglia saranno infatti esentate dalla normativa antitrust e potranno fissare prezzi di rivendita se tale pratica non pregiudica la concorrenza. Le multe per aver violato la legge antimonopolio sono salite ad un record di 23,5 miliardi di yuan nel 2021, rispetto ai soli 400 milioni di yuan nel 2020. I nuovi emendamenti, adottati dal Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo, entreranno in vigore il 1° agosto, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa Xinhua.
Washington e alleati lanciano un’iniziativa per aiutare le isole del Pacifico
“Partners in Blue Pacific”: così si chiama il programma lanciato da Washington ed i suoi alleati nel Pacifico per aiutare le piccole nazioni insulari della regione. Lo schema di cooperazione mira a fornire supporto contro i problemi legati ai cambiamenti climatici ed alla pesca illegale, ma rappresenta anche l’iniziativa chiave di Giappone, Australia, USA, Regno Unito e Nuova Zelanda per contrastare le iniziative cinesi nel Pacifico.
Intervistato dal Financial Times, un alto funzionario americano ha dichiarato che il patto di collaborazione include una serie di misure mirate al rafforzamento delle presenze diplomatiche alleate nella regione, nonché un accordo per inviare giovani leader della regione a corsi di formazione diplomatica e manageriale negli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’aspetto della sicurezza, i funzionari americani dichiarano che il coinvolgimento navale americano nella regione pacifica aumenterà e non si esclude una cooperazione strategica e di difesa “un po’ più permanente”. In un contesto in cui la presenza americana è in declino mentre l’assertività cinese aumenta, il programma “Partners in Blue Pacific” si configura dunque come lo strumento chiave per permettere a Washington ed i suoi partner nel Pacifico di aumentare la propria presenza regionale in campi che spaziano dalla diplomazia e la sicurezza fino al cambiamento climatico e alla salute.
Il programma è stato accolto positivamente dalle Samoa, ed anche altri paesi, tra cui Corea del Sud, Canada e Germania, hanno espresso interesse per l’iniziativa. La Francia si è unita ai colloqui di Washington, ma per ora ha deciso di sospendere la partecipazione al programma in attesa di approfondire i legami con la regione prima di impegnarsi. Non sono invece mancate le reazioni a caldo della Cina: Liu Pengyu, portavoce dell’ambasciata cinese negli Stati Uniti, ha affermato che le nazioni insulari del Pacifico meridionale “non sono il cortile di casa di nessun paese, tanto meno un’arena per giochi geopolitici”. Pechino ritiene infatti di adottare nella regione una politica di apertura e inclusività, senza cercare alcuna sfera di influenza. Tuttavia, il patto di sicurezza firmato con le isole Salomone ha suscitato preoccupazione sul fatto che la Cina possa costruire una base navale in un’area più vicina a Canberra e alle Hawaii, dando all’esercito cinese stanziato nel Pacifico una capacità militare e strategica molto maggiore.
A cura di Sharon De Cet; ha collaborato Alessandra Colarizi
Classe ’94, valdostana, nel 2016 si laurea con lode in lingua cinese e relazioni internazionali presso l’Università cattolica del sacro cuore di Milano. Nonostante la sua giovane età, la sua passione per la cultura cinese e le lingue la portano a maturare 3 anni di esperienza professionale in Italia, Svezia, Francia e Cina come policy analyst esperta in Asia-Pacifico e relazioni UE-Cina. Dopo aver ottenuto il master in affari europei presso la prestigiosa Sciences Po Parigi, Sharon ora collabora con diverse testate italiane ed estere, dove scrive di Asia e di UE.