In un gesto distensivo, a poche ore dall’atteso trade deal, gli Stati uniti hanno rimosso la Cina dalla lista dei paesi accusati di manipolare la propria valuta. Lo ha annunciato ieri il dipartimento del Tesoro, fornendo per la prima volta un’analisi delle pratiche valutarie cinesi da quando, ad agosto – per volere di Trump – Pechino era stato accusato di svalutare artificialmente il renminbi per aggirare le tariffe. Secondo il rapporto, nel corso delle negoziazioni commerciali, il gigante asiatico ha assunto importanti impegni e il valore della divisa cinese si è apprezzato da settembre a oggi. Il testo dell’accordo impone ad entrambe le parti di astenersi da “svalutazione competitiva”. La mossa dell’amministrazione Trump ha già suscitato diverse alzate di sopracciglio tra quanti temono che i calcoli elettorali del presidente stiano indebolendo la posizione americana al tavolo delle trattative. Nondimeno, la controversa designazione (che non rispetta i criteri previsti dal Tesoro) aveva a suo tempo contrariato molti, tanto che il Fondo monetario internazionale aveva preso le difese di Pechino.[fonte: NYT]
Chiude il China Independent Film Festival
Il China Independent Film Festival, l’evento più importante dedicato al cinema cinese indipendente, è stato ufficialmente sospeso a tempo indeterminato. Lo hanno annunciato gli organizzatori su WeChat giovedì scorso, spiegando che “riteniamo impossibile organizzare localmente un festival cinematografico con uno spirito puramente indipendente”. Per 17 anni la manifestazione è riuscita a dare spazio a tematiche scomode, come gli orrori della grande carestia, la rivoluzione culturale e l’omosessualità. Trascorso il decennio d’oro a cavallo tra il 2003 e il 2013, anche il panorama cinematografico locale ha cominciato a scontare il pervasivo controllo delle autorità politiche sul settore culturale, culminato l’anno successivo nella chiusura del Beijing Independent Film Festival. [fonte: SCMP]
Il Tibet addotta nuove regole sull’unità etnica
A partire dal primo maggio prossimo, nella Regione autonoma del Tibet entreranno in vigore nuovi regolamenti per “rafforzare l’unità etnica”. Le linee guida – riportate dallo statale Tibet Daily – ricordano le stesse politiche adottate nel Xinjiang per giustificare la repressione delle minoranze islamiche. Il quotidiano afferma che, secondo i i regolamenti, governo, aziende, organizzazioni comunitarie, villaggi, scuole, gruppi militari e centri di attività religiosa dovranno collaborare al raggiungimento “dell’unità etnica”. Come? Sviluppando il commercio locale, il turismo e le industrie artigianali così da creare marchi locali. Tutte le componenti della società sono inoltre incoraggiate a “integrare l’unità etnica nella gestione e nella cultura delle aziende, reclutando dipendenti di tutti i gruppi etnici”. Ai sensi dei regolamenti, settembre è designato come il mese dedicato alle attività di promozione della coesione etnica. Speriamo che i buoni propositi restino tali. [fonte: SCMP]
Una nuova legge antitrust mette sotto scrutinio i colossi del tech cinese
Per la prima volta in assoluto, la State Administration for Market Regulation cinese ha incluso l’industria di Internet nella revisione delle leggi nazionali sull’antitrust. Le nuove proposte di riforma, pubblicate la scorsa settimana, accordano più potere agli enti regolatori nel monitoraggio del ruolo che i giganti del tech come Alibaba e Tencent svolgono online, in particolare nei settori del consumo e della finanza. Secondo gli esperti, la nuova legge antitrust è da interpretarsi nell’ambito degli sforzi messi in atto da Pechino per mitigare l’influenza che le lobby e le aziende tecnologiche hanno sul mercato: già dall’anno scorso infatti, il governo centrale sta incentivando la competizione nel settore così da lasciare più margine ai meccanismi di autoregolazione. Attualmente oggetto di consultazione pubblica, se approvata, la revisione prevederà multe pari al 10% del fatturato fino ad un massimo di 50 milioni di yuan (circa 6,5 milioni di euro) per le aziende riconosciute colpevoli di violazioni. [fonte: Bloomberg]
Gli investimenti cinesi salvano la Rust Belt americana
Nonostante la guerra commerciale tra Washington e Pechino, molti stati americani negli ultimi anni sono sopravvissuti quasi esclusivamente grazie agli investimenti cinesi. Sono gli stati della Rust Belt americana che, sebbene per lo più schierati fin dal 2016 dalla parte delle retoriche nazionaliste di Trump, devono proprio ai capitali cinesi il risanamento di decenni di declino industriale e spopolamento. Un esempolare è il caso dell’Arkansas, storica roccaforte repubblicana, che ospita ben otto progetti cinesi. Tra i tanti, vi è Risever, un’azienda originaria di Anhui che fornisce componenti e macchinari ai giganti delle costruzioni tra cui Caterpillar, Terex, Volvo e Komatsu. Anche altri stati del sud, tra cui la Louisiana, il Mississippi, l’Alabama, la Georgia, il Tennessee, il Kentucky e la Carolina del Sud e quella del Nord, ospitano ora tutti fabbriche cinesi, segno che l’estrema correlazione tra le due più grandi economie del mondo supera ogni colore politico. Gli esperti sono concordi nel ritenere che il riavvicinamento alla Cina sia funzionale a conservare il voto degli stati repubblicani legati all’industria, come l’Ohio e la Pennsylvania. Una politica nazionalista troppo prolungata metterebbe infatti a rischio ogni possibilità di rielezione del presidente Trump proprio in quella stessa Rust Belt che per decenni ha riposto nei Repubblicani ogni speranza di riscatto. [fonte: Nikkei]
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Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.