I titoli di oggi:
- “Eletto” il nuovo Chief Executive di Hong Kong
- Le aziende tecnologiche cinesi si ritirano da mercato russo
- La Cina vuole rilanciare l’occupazione, ma deve fare i conti con la politica Zero Covid
- A Shanghai calano i casi, ma aumentano le restrizioni anti-Covid
- Il governo cinese mette al bando l’uso dei pc stranieri
“Eletto” il nuovo Chief Executive di Hong Kong
Hong Kong ha un nuovo e “patriottico” governatore della città. Con il 99,16 per cento dei voti a favore ottenuti dai membri del Comitato elettorale, John Lee Ka-chiu è stato “eletto” Chief Executive di Hong Kong. L’ex capo della sicurezza, che ha sedato le proteste democratiche nel 2019, ha ottenuto una conferma quasi unanime da parte del comitato elettorale, che rappresenta lo 0,02% dei 7,4 milioni della popolazione della città. Quale unico candidato che ha ricevuto la “benedizione” del governo di Pechino, Lee ha ottenuto 1.416 voti favorevoli e otto contrari (di cui quattro nulli) sui 1.461 componenti della Commissione elettorale. Ex segretario alla Sicurezza e forte sostenitore della legge sulla sicurezza nazionale, succederà all’attuale governatrice Carrie Lam e presterà giuramento il prossimo 1° luglio, in occasione del 25esimo anniversario dell’handover di Hong Kong dalla Gran Bretagna alla Cina e al giro di boa del modello ‘un Paese, due sistemi’, introdotto nel 1997 per la durata di 50 anni.
Alla proclamazione della vittoria, rispondendo alle domande dei giornalisti in inglese, cantonese e cinese mandarino, Lee ha ribadito i punti del suo programma elettorale: salvaguardare la sicurezza nazionale e locale, lavorare a una maggiore integrazione con la Cina (puntando, inizialmente all’apertura delle frontiere chiuse dallo scoppio dei primi focolai di Covid nel 2020), e affrontare l’annosa sfida legata all’alto costo degli alloggi. Ma Lee, che punta a garantire che Hong Kong mantenga il titolo di principale centro finanziario dell’Asia-Pacifico anche negli anni a venire, deve ridurre le disuguaglianze sociali e economiche che hanno fatto precipitare il Pil del 4 per cento nel primo trimestre. L’elezione non ha ricevuto reazioni unanime. L’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue Josep Borrell ha giudicato il voto (che rispecchia i cambiamenti apportati dalla Cina al sistema elettorale nel marzo 2021) come una violazione dei “principi democratici e del pluralismo politico” e come ulteriore passo verso lo smantellamento del principio ‘un Paese, due sistemi’.
Da Pechino, invece, è arrivato l’apprezzamento per l’elezione che conferma la “democrazia con caratteristiche di Hong Kong”. L’Ufficio per gli affari di Hong Kong e Macao del governo centrale ha lodato il “nuovo passo nello sviluppo democratico a livello locale” e ha espresso fiducia che la città possa “raggiungere nuove vette nei prossimi cinque anni”. Giubilo anche dai media statali cinesi. La Xinhua, che ha rimarcato il numero elevato di voti ottenuti da Lee, ha scritto che ieri c’è stata una reale dimostrazione di democrazia. Aspetto che, ha sottolineato l’agenzia di stampa cinese, era invece assente durante il periodo coloniale.
Le aziende tecnologiche cinese si ritirano da mercato russo
Le sanzioni occidentali imposte alla Russia in risposta alla guerra in Ucraina spaventano i colossi cinesi. E se il governo di Pechino non prende le distanze da Mosca, i big tecnologici si muovono autonomamente. Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, alcune società cinesi hi-tech si stanno lentamente ritirando dal mercato russo per il timore di essere colpite dalle sanzioni. A nulla servono gli inviti di Pechino a resistere alla coercizione occidentale: i giganti tecnologici del Dragone, che dominano il mercato russo, sono intenzionati a non subire le conseguenze dell’”amicizia senza limiti” tra Cina e Russia. Tra le compagnie che, senza fare annunci pubblici, hanno ridotto le spedizioni in Russia ci sono il colosso dei pc Lenovo e il produttore di smartphone Xiaomi.
La Cina vuole rilanciare l’occupazione, ma deve fare i conti con la politica Zero Covid
In vista del XX Congresso del Partito, il governo cinese vuole portare in auge i settori che registrano da tempo una preoccupante recessione. A partire dal mercato del lavoro. Il premier Li Keqiang ha lanciato un appello ai funzionari provinciali per rilanciare l’occupazione e assicurare così una vittoria sociale ed economica in vista dell’importante appuntamento politico del prossimo autunno. Il premier, nell’osservare quanto le prospettive lavorative siano “complicate e cupe”, ha dato indicazioni per assicurare un incremento delle assunzioni di laureati, lavoratori migranti e di coloro che hanno difficoltà economiche. Come? Partendo dal taglio delle tasse e dagli incentivi a piccole e medie imprese.
Quello che Li non ha però evidenziato durante l’incontro virtuale con i funzionari locali è il duro impatto che la strategia “Zero Covid” sta avendo sul mondo del lavoro. Con l’imperativo di azzerare i contagi di coronavirus, il governo ha imposto dure restrizioni e lockdown, bloccando l’attività produttiva. Al momento, secondo un’analisi della società di servizi finanziari Nomura, 328 milioni di residenti di 43 città cinesi sono in lockdown: queste aree rappresentano circa il 31 per cento del prodotto interno lordo cinese. Per questo gli analisti sono scettici: la Cina non registrerà un incremento occupazionale finché porterà avanti la politica Zero Covid.
A Shanghai calano i casi, ma aumentano le restrizioni anti-Covid
La metropoli di Shanghai inasprisce le restrizioni anti-Covid, nonostante continui a registrare un calo dei contagi di coronavirus. Le autorità dell’hub finanziario, che è in lockdown da almeno cinque settimane, hanno intenzione di mantenere in vigore i provvedimenti restrittivi fino alla fine di maggio per evitare una recrudescenza dei contagi. I funzionari locali osservano con attenzione come al di fuori dei 16 distretti della città attualmente in lockdown si registri un incremento dei casi: così, ai cittadini nei complessi residenziali delle aree a più basso rischio è stato imposto di non lasciare le loro abitazioni.
Il governo cinese mette al bando l’uso dei pc stranieri
Pechino ha ordinato alle agenzie del governo centrale e alle società sostenute dallo Stato di sostituire entro due anni i pc di marca straniera con quelli prodotti in Cina. Si tratta di almeno 50 milioni di apparecchi solo a livello di governo centrale, anche se il provvedimento riguarderà anche i governi provinciali. La Cina è impegnata da almeno un decennio a sostituire la tecnologia importata con alternative locali per tutelare la sicurezza delle agenzie governative: tra i prodotti interessati, ci sono i semiconduttori, le apparecchiature di rete e gli smartphone. È probabile che l’ultima direttiva del governo centrale escluda però componenti difficili da sostituire, come i processori Intel e AMD. Certamente la decisione avrà un impatto sulle vendite in Cina di colossi statunitensi, come HP e Dell Technologies.
A cura di Serena Console
Sanseverese, classe 1989. Giornalista e videomaker. Si è laureata in Lingua e Cultura orientale (cinese e giapponese) all’Orientale di Napoli e poi si è avvicinata al giornalismo. Attualmente collabora con diverse testate italiane.