Per la prima volta nella storia il vertice Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC) si è concluso senza un comunicato congiunto. Colpa delle divergenze tra Cina e Stati Uniti. I due giganti – rappresentati dal presidente cinese Xi Jinping e dal vicepresidente americano Mike Pence – hanno sfruttato il forum per rilanciare le rispettive strategie diplomatiche nel continente, rimarcandone i pregi divergenti. Alla natura “win-win” della Belt and Road si contrappone la “sostenibilità economica” della strategia dell’Indo-Pacifico promossa dagli Stati Uniti. Mentre ufficialmente a far deragliare lo statement è stata la controversia sulle riforme della WTO, balza all’occhio la natura geostrategica del braccio di ferro sino-statunitense. Per Pechino le isolette del Pacifico costituiscono lo scenario di un nuovo risiko diplomatico con Taiwan, che nella regione conserva il numero più consistente di alleati. Mentre per Washington le vecchie alleanze con Australia e Nuova Zelanda rappresentano una carta vincente nella strategia contenitiva anti-Cina.
L’industria del tabacco frena le ambizioni salutiste di Pechino
E’ bufera sull’industria del tabacco cinese. Alcuni giorni fa la statale China National Tobacco Corp, il più grande produttore al mondo per ricavi, ha annunciato di essere prossima all’obiettivo di vendita annuo di 47,5 milioni di casse di sigarette, un più 0,2% rispetto a un anno fa. Le previsioni ottimistiche della compagnia stridono con gli sforzi messi in atto dal governo per limitare il consumo di tabacco. Ogni anno le malattie collegate al fumo causano la morte di circa 1 milione di cinesi. Il tasso fumatori nel paese asiatico è attualmente il più alto al mondo. Secondo Cui Xiaobo, professore presso la Beijing’s Capital Medical University la crescita della produzione di tabacco va contro gli obiettivi del Health China Plan 2030 nonché della convenzione sul controllo del tabacco della World Health Organisation. Ma i ghiotti profitti sembrano ostacolare i buono propositi. L’industria del tabacco rientra tra i settori ancora sottoposti al monopolio statale.
Dieci anni alla scrittrice cinese di libri erotici
Dieci anni e mezzo. E’ la severissima pena detentiva comminata alla scrittrice di libri erotici Tianyi per aver “prodotto e venduto materiale pornografico”. A indignare le autorità sarebbe stato nello specifico Occupy, un romanzo ricco di “raffigurazioni grafiche di scene maschili omosessuali” che ha venduto oltre 7000 copie su internet. Mentre la pornografia oltre la Muraglia continua ad essere illegale, la sentenza è parsa incredibilmente severa tanto agli esperti quanto al popolo del web. Secondo la legge cinese, gli stupri sono soggetti a una pena detentiva tra i tre e i dieci anni, mentre un uomo condannato per aver picchiato a morte la moglie se l’è cavata con appena 6 anni e mezzo di reclusione. La colpa sarebbe da ricercare in un un’interpretazione obsoleta formulata dalla corte suprema del popolo nel 1998, prima della diffusione di internet.
Ombre cinesi sul controllo della società venezuelana
Secondo un’inchiesta della Reuters, la società tecnologica cinese ZTE – sanzionata temporaneamente dagli Stati Uniti – avrebbe aiutato il governo venezuelano a costruire un sistema digitalizzato di carte d’identità per i cittadini venezuelani in chiave securitaria. Il programma, cominciato sotto Hugo Chávez , avrebbe dato a Caracas il controllo su un database dei comportamenti politici, sociali ed economici dei propri cittadini. Si capisce come, in tempi di crisi economica, le ambizioni securitarie del nuovo governo di Maduro siano anche più marcate. Secondo l’inchiesta, un gruppo di dipendenti di ZTE sono stati inseriti in un’unità speciale all’interno di Cantv, la compagnia statale venezuelana delle telecomunicazioni preposta alla gestisce del database. D’altronde, Pechino ha già una posizione ben documentata nell’esportazione delle proprie tecniche di controllo sociale, almeno per quanto riguarda la censura online.
Pyongyang testa una nuova misteriosa arma
Secondo la stampa nordcoreana, Pyongyang ha testato una nuova “arma tattica ultramoderna”. L’operazione condotta sotto la supervisione di Kim Jong-un non costituirebbe un’infrazione degli accordi raggiunti con Seul a settembre – che prevedono lo smantellamento della zona demilitarizzata – né la moratoria sui lanci missilistici. Per gli esperti si tratterebbe piuttosto del tentativo di “spostare il pilastro della potenza militare convenzionale da un esercito di quasi 1,3 milioni di persone ad armi ad alta tecnologia”. Lo sviluppo di nuove armi avanzate diventa anche più importante considerati gli impegni presi con la comunità internazionale in vista di un progressivo smantellamento dell’arsenale nucleare. Al contempo si presta a rassicurare l’esercito nordcoreano, preoccupato da una possibile emarginazione dalla vita politica e sociale del paese. Il malumore dei militari trova conferma in un’intervista del Sankei Shimbun a Oh Chong Song, il venticinquenne fuggito dalla zona demilitarizzata lo scorso anno. Oh, figlio di un generale, avrebbe raccontato al quotidiano giapponese che “al Nord, le persone, specialmente le giovani generazioni, sono indifferenti l’un l’altro, verso la politica e i loro leader, e non c’è alcun senso di lealtà”.