Pechino è inarrestabile: dopo salatissime multe dell’antitrust cinese ai più grandi colossi tecnologici, il blocco di Didi e di altre app di ride-hailing poiché accusate di utilizzare i dati degli utenti in modo non conforme alla legge, il governo centrale ha emanato sabato scorso nuove regole che richiederebbero a quasi tutte le società che vogliano entrare sulla borsa di paesi stranieri di sottoporsi ad una revisione della sicurezza informatica. Secondo quanto dichiarato dalla China Cyberspace Administration, le nuove regole interessano le aziende che detengono dati su oltre 1 milione di utenti, che devono ora richiedere l’approvazione delle proprie prassi di sicurezza informatica prima di essere quotate in altre nazioni in modo da prevenire il rischio che tali dati e informazioni personali possano essere “influenzati, controllati e sfruttati in modo dannoso da governi stranieri”. La revisione della sicurezza informatica esaminerà anche i potenziali rischi per la sicurezza nazionale derivanti dalle IPO all’estero.
Il regolatore cinese sta attualmente attendendo un feedback sulle regole proposte, che si applicano specificamente alle quotazioni in paesi stranieri, prima dell’implementazione. Finora quest’anno, 37 società cinesi sono quotate negli Stati Uniti, per un totale di 12,9 miliardi di dollari, secondo i dati compilati da Bloomberg.
Le nuove regole spingeranno sempre più società tecnologiche cinesi ad Hong Kong anziché in un altro paese, in modo tale da aggirare la revisione: infatti, la soglia di un milione di utenti è molto bassa e si applicherebbe fondamentalmente a ogni società tecnologica cinese che aspira a un’IPO. Poco prima che le regole fossero annunciate, alcune società che avevano pianificato di entrare in borsa a New York avevano ritirato le loro offerte: giovedì scorso, LinkDoc Technology è diventata la prima azienda nota ad accantonare un’IPO sulla scia delle nuove modifiche proposte, seguita poi dall’app di fitness Keep e dalla startup Meicai. TikTok ByteDance e la società di logistica e consegne on-demand Lalamove, che stanno valutando un IPO, potrebbero ben presto essere inflienzate dalle nuove normative. [fonte Bloomberg]
Il paese che finanzia più progetti a carbone? Non è la Cina
Uno studio del Global Development Policy Centre dell’università di Boston ha rivelato che non è la Cina il paese che ha finanziato maggiormente i grandi progetti a carbone internazionali. Secondo i ricercatori, tra il 2013 ed il 2019 solo il 13 percento dell’energia a carbone generata dalle infrastrutture internazionali sarebbe stata finanziata da organizzazioni cinesi, contrariamente al 70 percento indicato da stime precedenti. Sarebbero invece Giappone, Stati Uniti e Regno Unito i maggiori investitori per almeno l’87 percento dei progetti a carbone globali.
A gennaio 2021, gli americani hanno rappresentato collettivamente il 58% degli investitori istituzionali nel settore dell’energia a carbone mondiale, emettendo azioni e obbligazioni per un valore di 602 miliardi di dollari. In testa al gruppo vi è la società Vanguard, che ha investito 86 miliardi di dollari, e la società di gestione patrimoniale BlackRock, con 84 miliardi di dollari. Gli investitori giapponesi e britannici rappresentano rispettivamente la seconda e la terza quota più alta, afferma lo studio, citando una ricerca della ONG ambientale Urgewald: tra il 1° ottobre 2018 e il 31 ottobre 2020, le banche commerciali giapponesi Mizuho, Sumitomo Mitsui Banking Corporation e Mitsubishi UFJ Financial Group hanno emesso finanziamenti per un valore rispettivo di 22, 21 e 18 miliardi di dollari, seguite a ruota dalle banche britanniche Citigroup (13,5 miliardi di dollari) e Barclays (13,3 miliardi di dollari).
Lo studio dell’università di Boston coincide con una crescente spinta per fermare il finanziamento governativo dell’energia dal carbone: a maggio, i ministri del clima e dell’ambiente dei paesi del G7 si sono impegnati a “fare passi concreti verso la fine assoluta del nuovo sostegno diretto dei governi per la produzione internazionale di energia termica da carbone entro la fine del 2021”.
Dal canto suo, Pechino ha stabilito di raggiungere l’obiettivo zero emissioni entro il 2060 e si è impegnata a ridurre le emissioni per rispettare i termini stipulati dall’accordo di Parigi. Altri attori cinesi hanno accettato la sfida: l’ Industrial and Commercial Bank of China, uno dei maggiori finanziatori del carbone del paese, ha dichiarato che avrebbe gradualmente eliminato i prestiti al settore, decidendo inoltre di non finanziare una centrale elettrica a carbone in Kenya – progetto dal valore 1,2 miliardi di dollari – ed un progetto da 2800 megawatt in Zimbabwe. [fonte SCMP]
Troppi rischi: ad Hong Kong spariscono i gruppi pro-democrazia
A poco più di un anno dall’entrata in vigore della legge sulla sicurezza nazionale nell’ex colonia britannica, ad Hong Kong i gruppi pro-democrazia si fanno sempre più ristretti e silenziosi. Non solo l’ultimo giornale pro-democrazia rimasto in città, Apple Daily, è stato recentemente costretto a chiudere i battenti dopo che le autorità hanno arrestato il personale e congelato i loro conti bancari, ma ora anche la Hong Kong Alliance in Support of Patriotic Democratic Movements of China ha dovuto ridimensionare le sue attività.
Il gruppo, –conosciuto per organizzare la veglia a lume di candela in ricordo delle persone uccise nella sanguinosa repressione del 1989 in Piazza Tiananmen – ha affermato che 7 dei suoi 14 membri del comitato direttivo hanno deciso di dimettersi, preoccupati per i “crescenti rischi politici e legali”. Dei sette membri rimasti, tre sono in carcere per attività legate alla protesta: il presidente, Lee Cheuk-yan, e i vicepresidenti Albert Ho Chun-yan e Chow Hang-tung.
Secondo un’inchiesta del South China Morning Post, sarebbero almeno 21 i gruppi pro-democrazia ad aver abbandonato o ridotto la loro attività nell’ex colonia britannica: dopo Demosisto, fondato da Joshua Wong, a gennaio scorso si è dissolta anche la Union for New Civil Servants, fondata durante le proteste pro-democratiche del 2019. Ad abbandonare Hong Kong vi sono anche due gruppi attivi nell’ambito della sanità, Frontline Doctors e Médecins Inspirés.
Mentre i gruppi attivisti tradizionali sembrano dunque cedere sotto la pressione di Pechino – che pone continue barriere al reclutamento di nuovi membri nei direttivi di tali organizzazioni– alcune associazioni più giovani e più incentrate sull’azione locale sembrano resistere: un esempio ne è la Local Youth Will, formata a maggio scorso da 11 studenti e che è riuscita ad esibire materiale fotografico sulle proteste pro-democratiche del 2019 a Shan Shui Po. [fonte SCMP, Guardian]
I vlogger stranieri promotori della campagna di disinformazione cinese
Secondo un recente reportage della BBC sarebbero sempre di più i vlogger ed influencer stranieri a pubblicare sui loro profili YouTube video “patriottici” in cui elogiano o promuovono la vita in Cina.
I video blog sono da tempo molto popolari nel paese di mezzo, ma le strette normative che regolano la pubblicazione di contenuti online spesso limitano gli utenti cinesi a postare contenuti dalle loro case. Tuttavia, sembrerebbe che gli influencer stranieri – ed in particolare quelli provenienti dai paesi occidentali – godano di una certa libertà di azione, se non di un vero e proprio supporto da parte delle autorità cinesi.
Un esempio è il vlogger inglese Lee Barrett, che in uno dei suoi video ha dichiarato che organizzazioni come la China Radio International gli avrebbero offerto un intero viaggio in Xinjiang. Barrett è stato definito dall’emittente statale CGTN come “collaboratore esterno”, invitato altresì a numerosi eventi sponsorizzati dal governo cinese. Il reportage segnala inoltre un importante aumento dei volti stranieri nelle campagne mediatiche cinesi: la CGTN ha dichiarato sul suo sito web di avere più di 700 collaboratori esterni a cui sono stati offerti “visibilità internazionale e bonus” – molto spesso premi in denaro che possono arrivare anche ad un valore di 10.000 dollari. L’attenzione portata dai media cinesi ai volti occidentali sembrerebbe trovare conferma anche da alcune fonti interne alla CGTN, che hanno dichiarato anonimamente di aver ricevuto linee guida che prevedono il lancio di nuove “celebrità di internet” internazionali per rispondere alla disinformazione dei media occidentali.
Studi condotti da ricercatori australiani hanno denotato che i vlog degli expat in Cina hanno quasi sempre come oggetto la questione del Xinjiang oppure Hong Kong, due dei temi più scottanti del momento per Pechino e principali cause del criticismo internazionale verso la Cina. Sebbene non sia ancora chiaro cosa spinga i vlogger stranieri a pubblicare contenuti pro cinesi – se credano effettivamente nell’ideologia cinese o se sono invece motivati dal richiamo della fama – la ragione per cui i media del governo cinese lavorano con i vlogger sembra abbastanza palese: in un momento in cui le critiche internazionali alla Cina per la questione di Hong Kong, la gestione della pandemia di coronavirus ed il trattamento riservato ai musulmani uiguri, Pechino sembrerebbe voler investire nei volti stranieri per risanare la sua reputazione all’estero. [fonte BBC]
Classe ’94, valdostana, nel 2016 si laurea con lode in lingua cinese e relazioni internazionali presso l’Università cattolica del sacro cuore di Milano. Nonostante la sua giovane età, la sua passione per la cultura cinese e le lingue la portano a maturare 3 anni di esperienza professionale in Italia, Svezia, Francia e Cina come policy analyst esperta in Asia-Pacifico e relazioni UE-Cina. Dopo aver ottenuto il master in affari europei presso la prestigiosa Sciences Po Parigi, Sharon ora collabora con diverse testate italiane ed estere, dove scrive di Asia e di UE.