I titoli di oggi:
- Cina: 78 campagne di boicottaggio contro i brand stranieri in sei anni
- Cina: governi locali vendono prodotti finanziari ad alto rischio su WeChat
- A Shanghai si teme un nuovo lockdown
- Sri Lanka: il presidente è fuggito alle Maldive
- Harris al forum delle isole del Pacifico contro i “bad actors”
Cresce il nazionalismo tra i consumatori cinesi. Secondo uno studio del Swedish National China Centre, dal 2016 gli acquirenti cinesi hanno organizzato almeno 78 campagne di boicottaggio ai danni di società straniere, oltre sei volte il numero degli otto anni precedenti. Il picco massimo è stato raggiunto nel 2019, in piena trade war con Washington. Nella maggior parte dei casi è possibile rintracciare in misura variabile l’intervento dello stato. La ricerca non si limita solo a quantificare gli episodi in questione ma fornisce anche interessanti dettagli sulla reazione delle aziende colpite dalle ritorsioni. Dalle statistiche apprendiamo che generalmente, le aziende si scusano rapidamente quando vengono boicottate per questioni di sovranità territoriale, ma molto meno frequentemente quando sono coinvolte presunte violazioni dei diritti umani. Oltre l’80% delle società ha fatto mea culpa in casi che riguardavano lo status di Taiwan e del Tibet o le proteste pro-democrazia di Hong Kong. Al contrario, solo circa un quarto delle aziende ha espresso rammarico dopo aver bloccato le forniture di prodotti dallo Xinjiang.
La ricerca sottolinea come a influire sulla remissività dei brand stranieri sia anche la competizione sempre più accesa con i competitor cinesi. Ciononostante, circa la metà delle aziende boicottate ha incassato il colpo senza ammettere alcuna colpa. E non tutte ne hanno pagato le conseguenze. Anzi, spesso le scuse fomentano ancora più risentimento perché vengono percepite dall’opinione pubblica cinese come false e opportunistiche. Dato che qualcuno se lo starà domandando, le società più bersagliate dai nazionalisti sono quelle giapponesi, americane, sudcoreane e francesi.
Cina: governi locali vendono prodotti finanziari ad alto rischio su WeChat
La politica zero Covi sta mettendo a dura prova i governo locali. Al conto salato di test di massa e lockdown si aggiungono gli sgravi fiscali stabiliti da Pechino per assistere le imprese private. Il quadro già non roseo assume ulteriori tinte fosche a causa del crollo della vendita dei terreni (tradizionalmente fonte di entrate sicure per le amministrazioni locali) a causa delle incertezze del mercato immobiliare. Così per racimolare fondi le autorità locali si stanno rivolgendo a mezzi sempre più rischiosi: come la vendita del debito emesso dagli LGFV, veicoli di finanziamento utilizzati dalle amministrazioni locali che vendono titoli di debito sui mercati obbligazionari, con lo scopo di finanziare progetti immobiliari e infrastrutture. Si tratta di prodotti finanziari con rendimenti altissimi (fino al 10%) sponsorizzati su WeChat e altri social media. Ma la cui sostenibilità economica è tutt’altro che certa essendo spesso destinati a pagare opere infrastrutturali non profittevoli o che rimarranno incompiute. Secondo le stime di YY Rating, da giugno dello scorso anno, un totale di 165 prodotti obbligazionari LGFV sono stati venduti online.
Per capire “borderline” le possibili ricadute, basta guardare a quanto sta accadendo a Zhengzhou. Due giorni fa le autorità hanno annunciato che cominceranno a rimborsare i depositanti se la somma congelata è di non oltre 50.000 yuan. Ma chi verrà scoperto ad avere investito in prodotti con tassi di interesse superiori alla media sarà escluso dal piano di salvataggio. Intanto diversi manifestanti hanno raccontato alla stampa internazionale di aver subito pesanti pressioni da parte delle autorità affinché abbandonassero le proteste. Solo pochi hanno ancora la speranza di rivedere i propri soldi. “Cosa succederà se il governo non riuscirà a recuperare i fondi?”, ha dichiarato al SCMP uno dei correntisti. Al montare delle polemiche esperti consultati dal Global Times minimizzano: nessun rischio sistemico per l’economia cinese, quello dello Henan è un caso “isolato”.
A Shanghai si teme un nuovo lockdown
A Shanghai non si mette bene. Negli ultimi 9 giorni sono stati registrati 378 casi in tutti i 16 distretti della città e alcuni siti per la quarantena centralizzata stanno riaprendo. Lo riporta Caixin, aggiungendo che che molti comitati di quartiere nei distretti di Putuo, Hongkou e Xuhui hanno consigliato ai residenti di preparare scorte di cibo e medicine per 14 giorni. Da circa una settimana girano voci di un possibile secondo lockdown, mentre circa 200 compound sono già tornati in isolamento dopo aver riportato alcuni contagi. Alcuni condomini hanno adottato le stesse misure anche semplicemente nel caso di contatti stretti con pazienti infetti.
Intanto, dopo le molte lamentele, le autorità in varie parti del paese hanno annunciato misure per prevenire episodi di discriminazione (soprattutto sul lavoro) ai danni dei pazienti ormai guariti.
Harris al forum delle isole del Pacifico contro i “bad actors”
Il Pacifico ha sempre più sembianze di un ring molto affollato. A inizio giugno avevamo raccontato del fallimentare tentativo con cui Pechino aveva cercato di coinvolgere gli stati insulari a firmare un mega accordo contenente controverse disposizioni in materia di sicurezza. L’iniziativa era stata fortemente criticata da Stati uniti e Australia, infastiditi dal vedere la Cina sconfinare nel proprio cortile di casa. Per Washington e Canberra è stata una doccia fredda, ma anche un momento di introspezione per realizzare gli errori commessi: in primis l’inerzia davanti alle ripetute richieste di supporto dei partner regionali. Gli States stanno quindi correndo ai ripari. Lo dimostra l‘inattesa partecipazione (seppur virtuale) di Kamala Harris al Forum delle Isole del Pacifico ospitato dalle Figi. Una partecipazione rilevante considerato che inizialmente tutti “dialogue partner” (Stati uniti, Australia, Nuova Zelanda e Cina) erano stati invitati a restarsene fuori.
La vicepresidente americana – preceduta a febbraio dalla visita di Blinken a Suva – ha annunciato varie novità, dall’istituzione di ambasciate a Kiribati e Tonga alla nomina di un inviato presidenziale speciale al Forum delle Isole del Pacifico (PIF). L’amministrazione Biden ha inoltre stanziato un fondo pari al triplo dell’importo richiesto dal Congresso per la pesca e lo sviluppo economico: fino a 60 milioni di dollari all’anno per 10 anni. “Non stiamo chiedendo a nessuno di fare una scelta” ha precisato Harris per poi però chiedere maggiore coesione contro i “bad actors” intenzionati a sovvertire l’ordine costituito.
D’altronde la scorsa settimana, incontrando l’omologa neozelandese, il nuovo premier australiano, Anthony Albanese, aveva dichiarato che “non ci sono dubbi che l’accordo sulla sicurezza sarà discusso durante il PIF”. La Cina è quindi l’elefante nella stanza. In tutti i sensi: due diplomatici cinesi sono stati scortati dalla polizia fuori dal forum per aver violato il protocollo infiltrandosi tra il personale della stampa.
Sri Lanka: il presidente è fuggito alle Maldive
Gotabaya Rajapaksa si trova nelle Maldive. Secondo la stampa locale, il presidente dimissionario dello Sri Lanka è riuscito a fuggire a bordo di un aereo militare, dopo che i funzionari dell’Aeroporto internazionale di Colombo gli avevano impedito di imbarcarsi alla volta di Dubai. Rajapaksa si sarebbe imbarcato la scorsa notte, accompagnato dalla moglie Ioma e da due altri passeggeri, inclusa una guardia del corpo. Stando al Nikkei, l’arrivo nell’arcipelago sarebbe stato reso possibile dall’intercessione dell’ex presidente e attuale presidente del parlamento maldiviano, Mohamed Nasheed, su richiesta del premier dimissionario singalese Wickremesinghe. Le autorità di Malé avevano inizialmente rifiutato di concedere il via libera all’arrivo di Gotabaya.
La fuga del presidente, tuttavia, non è detto metterà veramente fine alla dinastia dei Rajapaksa. Secondo Bloomberg, il nipote 26enne, Namal Rajapaksa, ha definito la situazione attuale “battuta d’arresto temporanea” lasciando intendere un possibile ritorno del padre Mahinda, fratello di Gotabaya, ex premier e presidente durante la rivolta Tamil.
A cura di Alessandra Colarizi
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.