I titoli di oggi:
- Crisi ucraina, le sanzioni viste da Pechino
- La risposta asiatica alla crisi ucraina, oltre la Cina
- Hong Kong, il Covid avanza: supermercati vuoti e test di massa in arrivo
- Lgbtq+, in Cina alcune nicchie sopravvivono alla narrazione ufficiale
- Giappone, Toyota chiude gli impianti per difendersi dai cyberattacchi
La Cina ha iniziato a evacuare alcuni cittadini cinesi dall’Ucraina. Secondo quanto riportato dai media statali, ieri circa 600 studenti cinesi hanno lasciato Kiev e la città portuale meridionale di Odessa in pullman diretti verso la Moldavia. Il viaggio, avvenuto sotto la scorta dell’ambasciata e la protezione della polizia locale, è durato sei ore e si è concluso “senza intoppi”. Altri 1.000 connazionali lasceranno l’Ucraina quest’oggi in direzione della Polonia e Slovacchia. Le operazioni sarebbero dovute avvenire in aereo, ma l’aggravarsi della situazione nel paese e la chiusura dello spazio aereo ucraino hanno costretto le autorità cinesi a cercare un’alternativa. La Cina è stata uno degli ultimi paesi a richiamare i propri cittadini, ritenendo un intervento militare della Russia altamente improbabile. Diversi cinesi residenti in Ucraina hanno dichiarato di temere per la propria sicurezza a causa della posizione ambigua mantenuta da Pechino nella crisi. I media statali continuano a sminuire l’impatto della guerra. In risposta aumentano gli appelli per una risoluzione pacifica. Dopo la petizione lanciata da cinque accademici su WeChat (e censurata), ieri un’iniziativa simile ha visto il coinvolgimento di 121 ex studenti di alcune delle migliori università cinesi. La petizione invita il governo cinese a onorare gli impegni presi con l’Ucraina ai sensi della risoluzione 984 delle Nazioni Unite sull’utilizzo di armi nucleari contro i paesi sprovvisti dell’atomica. Nonostante l’intervento dei moderatori, il dibattito sul web cinese continua a rimanere molto diviso.
Crisi ucraina, le sanzioni viste da Pechino
Mentre non sembrano arrestarsi le violenze esplose con l’invasione russa dell’Ucraina, Pechino risponde ai paesi occidentali. Sebbene il governo cinese abbia chiuso alcuni canali finanziari con Mosca, come il freno ai pagamenti per le materie prime dalla Russia. Ma non si tratta di un passo verso le richieste di Unione Europea e Usa: “La Cina non è favorevole all’uso delle sanzioni per risolvere i problemi e inoltre si oppone a sanzioni unilaterali che non hanno fondamento nel diritto internazionale”, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin durante la conferenza stampa di lunedì 28 febbraio. Wang ha poi chiarito che le recenti misure non intendono danneggiare “la normale cooperazione commerciale nello spirito del rispetto e vantaggio reciproco tra Russia e Cina” e che bisogna andare verso la soluzione diplomatica. Pechino si offre di collaborare solo in quest’ultimo caso, astenendosi dalle risoluzioni Onu che chiedono la condanna delle azioni di Mosca.
Come si evince dalle parole del portavoce degli Esteri, la Cina ha scelto di distaccarsi dalla Russia nelle trattative più rischiose dal punto di vista finanziario. Non sta accadendo così nel settore energetico, dove gli accordi delle settimane precedenti hanno iniziato a prendere forma: isolata dai paesi europei, la russa Gazprom Pjsc ha appena firmato un nuovo accordo per la progettazione del un nuovo gasdotto verso la Cina. La mossa dimostrerebbe, secondo gli analisti, che Mosca osserva i tentativi europei di allontanarsi dalle forniture russe e sta lavorando per piazzare le proprie risorse su altri mercati. Gazprom aveva già siglato un accordo da 400 miliardi di dollari con Pechino nel 2014 per il gasdotto “Power of Siberia”, operativo dal 2019.
La risposta asiatica alla crisi ucraina, oltre la Cina
Arrivano le prime risposte dal resto del continente asiatico, mentre alcuni paesi rafforzano la propria posizione sulla questione. Lunedì 28 febbraio Taiwan ha lanciato “Taiwan Can Help”, una campagna di raccolta fondi per i rifugiati. L’appello è stato descritto dal vicepresidente della legislatura Tsai Chi-chang come la “risposta di Taipei al sostegno ricevuto dalla comunità internazionale durante l’emergenza Covid”. Taipei si unisce anche all’esclusione della Russia dal sistema di pagamenti internazionali Swift, sebbene si tratti di una scelta perlopiù simbolica (gli scambi sono minimi). Nel frattempo, il parlamento sta valutando una votazione per condannare le azioni russe (qui alcuni chiarimenti sull’associazione Taiwan-Ucraina).
Singapore avrebbe scelto di sanzionare la Russia. Secondo quanto dichiarato dal ministro degli Esteri Vivian Balakrishnan, le misure comprenderanno il fermo ad alcune transazioni bancarie e finanziarie legate a Mosca, nonché il divieto di esportazione di qualunque merce che possa venir utilizzata per sostenere la guerra. Si tratta di un caso raro per la politica dello hub finanziario, giustificato dalla “gravità senza precedenti dell’attacco russo”. Sostegno all’Ucraina anche da parte del Giappone, che ha annunciato nuove sanzioni nei confronti di Mosca e Minsk, oltre a 100 milioni di dollari in aiuti umanitari e l’estensione del visto giapponese per i cittadini ucraini residenti nel paese.
Risposta tiepida dall’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean), che ha riunito i suoi ministri degli Esteri sabato 26 febbraio. Il gruppo ha dichiarato di essere “profondamente preoccupato per l’evolversi della situazione e delle ostilità armate in Ucraina” e “invita tutte le parti interessate alla massima cautela e ad adoperarsi al massimo per portare avanti il dialogo attraverso tutti i canali disponibili”. Diversi paesi Asean hanno legami diplomatici e commerciali solidi con la Russia (qui per approfondire), e ciò spiega parzialmente la moderazione adottata dall’Associazione.
Hong Kong, il Covid avanza: supermercati vuoti e test di massa in arrivo
Nelle giornate di lunedì e martedì 1 marzo i cittadini di Hong Kong hanno fatto scorte di beni alimentari e di prima necessità, svuotando i supermercati. A monte, l’effetto panic-buying è dovuto all’annuncio della leader Carrie Lam, che ha chiesto test di massa obbligatori a partire dal 17 marzo. Le autorità prevedono di testare gli oltre 7 milioni di abitanti della metropoli tre volte nell’arco di nove giorni, secondo uno schema tipico della strategia cinese a “contagi zero”, e presumibilmente un lockdown della stessa durata del periodo di test (con alcune concessioni per comprare cibo e medicine). I casi totali a partire dall’inizio di febbraio si sono moltiplicati esponenzialmente, arrivano a 34 mila contagi e intasando le strutture sanitarie. Preoccupazione anche per le fasce d’età più avanzate: sono relativamente pochi gli anziani vaccinati (il 30% degli over 80), e le iniezioni hanno subito un rallentamento dato l’impiego del personale sanitario per gestire le ospedalizzazioni.
Lgbtq+, in Cina alcune nicchie sopravvivono alla narrazione ufficiale
Un articolo comparso sulla piattaforma di informazione in lingua inglese Sixth Tone invita a osservare il fenomeno queer delle piattaforme cinesi. In un paese dove la narrazione intorno alla comunità Lgbtq+ è oggetto di censura, sorprende l’esistenza di nicchie che riscuotono un discreto successo tra i netizen cinesi. Si tratta di un fenomeno specifico della rete cinese, che ricorda la sovrapposizione tra identità queer e iniziative commerciali – o la semplice ricerca di fama attraverso lo strumento del vlog.
Più a Occidente questi atteggiamenti passano spesso per “deviazioni” dalla causa queer intesa come spinta trasformativa nella società. In Cina sarebbe invece uno dei pochi spazi rimasti all’espressione Lgbtq+, che cerca di inserirsi nella tradizione ma rinnovandone i modelli. È il caso, per esempio, dell’importanza data ai genitori in questi vlog, che accettano e sostengono le scelte dei propri figli o figlie. Dall’analisi dei commenti questi video sembrano sinceramente toccare le corde del pubblico, proponendo una visione conciliatoria della sfera famigliare e sociale delle persone queer.
Giappone, Toyota chiude gli impianti per difendersi dai cyberattacchi
Il conflitto in Ucraina continua anche sulla rete: secondo i dirigenti di Toyota sarebbero degli hacker legati al governo russo quelli che hanno attaccato un fornitore della nota casa automobilistica. La mossa ha spinto l’azienda a chiedere la chiusura degli impianti in Giappone, per timore che si tratti di una ritorsione nei confronti delle sanzioni emanate da Tokyo e per prendere le dovute precauzioni per continuare a lavorare in sicurezza. In tutto si tratta di 14 stabilimenti, dove lavorano oltre 70 mila dipendenti.
A cura di Serena Moles; ha collaborato Alessandra Colarizi
Formazione in Lingua e letteratura cinese e specializzazione in scienze internazionali, scrive di temi ambientali per China Files con la rubrica “Sustainalytics”. Collabora con diverse testate ed emittenti radio, occupandosi soprattutto di energia e sostenibilità ambientale.