La Cina ha cominciato a rilasciare le prime licenze commerciali per lo sviluppo del 5G con diversi mesi si anticipo. A fare da apripista saranno i tre operatori delle telecomunicazioni China Mobile, China Unicom e China Telecom insieme al colosso della rete via cavo China Broadcasting Network. L’annuncio è stato fatto ieri dal ministero dell’Industria e l’Informazione tecnologica, il quale negli scorsi giorni si era affrettato a esaltare l’apporto straniero nel dispiegamento del 5G oltre Muraglia, citando il coinvolgimento esemplare di Nokia, Ericsson, Qualcomm e Intel. Il tempismo non è casuale e c’è chi ritiene che – sanzioni americane permettendo – Huawei beneficerà dell’accelerata in patria mentre oltremare le porte si chiudono. Secondo quanto affermato dall’azienda, “dall’aprile dello scorso anno, Huawei ha condotto test commerciali 5G in oltre 40 città con i tre principali operatori cinesi”, siglato 46 contratti commerciali 5G in 30 paesi in tutto il mondo e consegnato più di 100.000 stazioni base mobili 5G [fonte: Reuters, Caixin]
Google sta con Huawei
L’inclusione di Huawei nell’Entity List non solo spingerà l’azienda cinese a sviluppare più velocemente il proprio sistema operativo. Bloccando le forniture americane, Washington rischia di creare due tipi di sistemi operativi Android: la versione originale e quella ibrida, che secondo il colosso di Mountain View contiene più bug rispetto alla versione ufficiale, quindi rischia di rendere i telefoni Huawei più esposti ad attività di hackeraggio, comprese le incursioni dalla Cina. Da quando il dipartimento del Commercio ha annunciato le nuove restrizioni, dirigenti di Google – spalleggiati dal produttore di chip Qualcomm – hanno chiesto un prolungamento della moratoria di 90 giorni o una rimozione totale di Huawei dalla lista nera. Per il momento il Bureau of Industry and Security ha risposto che l’obiettivo principale del governo è assicurare la “sicurezza nazionale” . Intanto, Facebook ha annunciato che i nuovi dispositivi Huawei non avranno preimpostate le app di Facebook, WhatsApp e Instagram, nuova tegola per le vendite del colosso di Shenzhen in Europa. La misura, a differenza di Google, coinvolge anche gli smartphone che non hanno ancora lasciato la fabbrica [fonte: Financial Times]
Quasi pronto “sole artificiale” made in China
La Cina terminerà la costruzione del “sole artificiale” entro l’anno. La China National Nuclear Corporation (CNNC) ha annunciato a inizio settimana la messa in servizio del sistema di bobine che costituisce il cuore del dispositivo. Noto ufficialmente come HL-2M Tokamak, il “sole artificiale” non è altro che un reattore a fusione controllabile, progettato per generare energia imitando il processo di fusione nucleare del sole. Il progetto mira a utilizzare la forza magnetica per combinare gli atomi, che a loro volta rilasciano l’enorme energia in modo sicuro e controllabile. La Cina da anni lavora allo sviluppo di fonti energetiche pulite, sebbene il nucleare abbia subito una battuta d’arresto dopo il disastro di Fukushima. Come spiega il Global Times, rispetto alla fissione nucleare, la fusione produce un livello di inquinamento meno immediato e meno materiale di scarto [fonte: Global Times]
Tokyo difende i tacchi alti
Sì all’obbligo dei tacchi alti a lavoro. Entrando a gamba tesa nelle polemiche degli ultimi giorni, il ministro del Lavoro e della Salute, Takumi Nemoto, ha definito il dress code imposto da molte aziende nipponiche “necessario e appropriato”. A inizio mese una petizione guidata dalla scrittrice Yumi Ishikawa aveva chiesto al governo nipponico di abolire la pratica “sessista e discriminatoria”. L’appello era diventato virale in rete con l’hashtag #KuToo, gioco di parole tra kutsu (scarpe), kutsuu (sofferenza) e #MeToo. Non è la prima volta che le autorità finiscono nell’occhio del ciclone per commenti misogini. Lo scorso anno, era stato l’invito del parlamentare del Liberal Democratic Party Kanji Kato a scatenare la bufera definendo le donne che non hanno figli un peso per la società [fonte: Guardian]
Netflix con caratteristiche nordcoreane
Sono ormai cinque anni che la Corea del Nord lavora alla produzione di propri smartphone e ad oggi sono tre i brand disponibili nei negozi del Regno Eremita (Arirang, Pyongyang e Jindallae), mentre gli utenti hanno superato i 3,8 milioni nel 2017, pari al 15% del totale della popolazione. Un tempo appannaggio di funzionari e commercianti, oggi di dispositivi mobile e i tablet “made in North Korea” permettono di effettuare chiamate vocali, giocare con i videogame, ascoltare canzoni pop e guardare film grazie ad app (acquistabili offline) quali ‘Naui Kiltongmu’, il Netflix locale. Secondo diverse fonti, gli smartphone si avvalgono del sistema operativo Android, sebbene sia possibile navigare solo in intranet o intercettando il segnale dalla Cina [fonte: Nikkei]
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Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.