Oltre cento Premi Nobel hanno accusato il governo cinese di aver cercato di impedire al Dalai Lama e al chimico taiwanese Lee Yuan-tseh di partecipare al summit per il Premio Nobel dello scorso aprile. Secondo il comunicato – firmato tra gli altri dall’economista Joseph Stiglitz e i nobel per la letteratura JM Coetzee e Wole Soyinka- l’ambasciata cinese a Washington avrebbe chiesto a più riprese di rimuovere dalla lista degli speaker Tenzin Gyatso e Lee, insignito del premio per la chimica nel 1986 e apertamente favorevole all’indipendenza di Taiwan dalla Cina. L’evento è stato bersagliato da due sospetti attacchi hacker che ne hanno compromesso la trasmissione video. Secondo uno dei promotori dell’iniziativa, il premio Nobel per la medicina, Richard Roberts, le pressioni di Pechino hanno spinto il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti e l’FBI ad avviare un’indagine congiunta.
Dopo anni di relativa quiete il Tibet è tornato al centro del braccio di ferro tra Cina e Stati uniti. Le prime avvisaglie erano emerse a novembre quando l’ex rappresentante del governo tibetano in esilio, Lonbsang Sangay, era stato invitato per la prima volta in 60 anni alla Casa Bianca. Un mese dopo il Congresso ha approvato il Tibet Policy and Support Act, legge che chiede la creazione di una coalizione internazionale per assicurare che la nomina del Dalai Lama sia disposta dal popolo tibetano senza l’ingerenza cinese. Ciliegina sulla torta: nella giornata di ieri il segretario di stato americano Antony Blinken, in visita in India, ha incontrato il rappresentante del Dalai Lama, Ngodup Dongchung. Si tratta di uno degli scambi di più alto livello dal meeting del 2016 tra Obama e Tenzin Gyatso.
Oltre alle tensioni con la Cina, il bilaterale tra Blinken e il premier indiano Narendra Modi è servito a rilanciare la diplomazia dei vaccini e discutere del futuro dell’Afghanistan. [Reuters, SCMP]
Il nuovo ambasciatore cinese arriva a Washington
“La porta delle relazioni tra Cina e Stati uniti non può essere chiusa”. Con queste parole il nuovo ambasciatore cinese Qin Gang ha inaugurato l’inizio del suo mandato. Poco dopo l’arrivo a Washington, l’ex viceministro degli Affari esteri ha dichiarato che “pur essendo due grandi paesi diversi per storia, cultura, sistemi sociali e fasi di sviluppo, Cina e Stati Uniti stanno entrando in un nuovo ciclo di reciproca esplorazione, comprensione e adattamento, cercando di trovare un modo per andare d’accordo nella nuova era”. Qin non è considerato un esperto di questioni americane. Ma gode della stima di Xi Jinping e, come responsabile del protocollo, ha affiancato il presidente in momenti topici, dalla visita di Trump in Cina al primo storico incontro con Kim Jong-un. Le parole di Qin lasciano intuire la speranza di un disgelo sino-americano, nonostante la retorica bellicista dell’ultimo bilaterale. Il nuovo ambasciatore ha auspicato la costruzione di “ponti” tra le due sponde del Pacifico. Sulla riva americana, però, il clima non è esattamente tra i più amichevoli. A differenza del caloroso benvenuto riservata al predecessore Cui Tiankai, Qin non ha trovato nessun funzionario del dipartimento di Stato ad accoglierlo. [fonte SCMP,WSJ]
I talebani in visita in Cina
Il futuro dell’Afghanistan e la sicurezza dei confini cinesi. Di questo hanno discusso il ministro degli Esteri cinese Wang Yi e il vicecapo dei talebani, Mullah Baradar Akhund, giunto ieri a Tianjin su invito del governo cinese. Akhund, accompagnato da altri otto membri del movimento ribelle, ha incontrato anche il nuovo rappresentante cinese per l’Afghanistan. Le due parti hanno discusso della ricostruzione economica del paese dopo il ritiro statunitense. Da tempo Pechino ambisce ad estendere il Corridoio Cina-Pakistan aldilà del confine per facilitare i trasporti verso l’Europa. Ma la minaccia del terrorismo islamico ha impedito progressi concreti. A questo proposito, Pechino ha invitato ii talebani a recidere i rapporti con l’East Turkestan Islamic Movement, sigla creata dai jihadisti uiguri che gli esperti ritengono ormai estinta e gli Stati uniti hanno rimosso dalla lista dei movimenti terroristici. “(La) delegazione ha assicurato alla Cina che non permetterà a nessuno di usare il suolo afghano contro la Cina”, ha dichiarato il portavoce dei barbuti, Mohammad Naeem. “La Cina ha anche ribadito il suo impegno a continuare l’assistenza con gli afgani e ha affermato che non interferirà nelle questioni dell’Afghanistan, ma aiuterà per risolvere i problemi e ripristinare la pace nel Paese”.
Secondo la Reuters, la trasferta cinese darà ulteriore legittimità ai barbuti dopo la recente missione in Iran. [fonte SCMP]
18 anni di carcere all’imprenditore Sun Dawu
Ben 18 anni di carcere. E’ la pena comminata all’imprenditore cinese Sun Dawu arrestato con l’accusa, tra le altre, di aver “sabotato la produzione e l’attività economica”. Il 67enne è il fondatore di un impero agricolo da miliardi di dollari con 9.000 dipendenti, ospedali e scuole private per il team aziendale. Persino uno stadio. Sun era stato arrestato dalla polizia lo scorso novembre insieme a 19 tra parenti e soci in affari dopo che la sua azienda è stata coinvolta in una disputa fondiaria con una società concorrente di proprietà statale. Fino al suo arresto in novembre, l’imprenditore aveva utilizzato i profitti della Dawu Agricultural and Animal Husbandry Group per favorire la giustizia sociale, soprattutto nelle aree rurali più povere della Cina. Secondo i gruppi per la difesa dei diritti umani, finito nel mirino delle autorità cinesi per il suo impegno a favore delle giustizia sociale e di attivisti umanitari come Xu Zhiyong. La sentenza comminata dalla Corte del popolo di Gaobeidian (Hebei) è per lunghezza della pena paragonabile a quella di Ren Zhiqiang, un altro imprenditore noto per aver criticato pubblicamente il presidente Xi Jinping e condannato a 18 anni per corruzione nel settembre 2020. Lo stesso mese a finire in manette era stata l’editrice Geng Xiaonan, accusata di aver difeso il giurista dissidente Xu Zhangrum. Due mesi dopo l’imprenditore filantropo di Chongqing Li Huaiqing è stato condannato a 20 anni per presunto “incitamento alla sovversione contro lo Stato”. [fonte SCMP]
La Cina dichiara guerra ai gas serra
Le emissioni di Co2 e non solo. L’obiettivo verde della Cina di diventare carbon neutral entro il 2060 include vari gas serra, non solo l’anidride carbonica. A suggerirlo è stato sabato scorso, Xie Zhenhua, inviato speciale della Cina per il Clima cambiamenti che ha specificato come il traguardo finale supera l’obiettivo del 2030, anno in cui la Cina prevede di raggiungere il picco di emissioni di carbonio. “[L’obiettivo del 2060] non riguarda solo l’anidride carbonica, ma anche gas serra come metano e idrofluorocarburi”. La svolta segue l’annuncio, a margine della visita di John Kerry in Cina, che ha visto le due parti accettare ufficialmente i termini previsti dall’emendamento di Kigali al protocollo di Montreal del 1985, che richiede ai firmatari di ridurre gli idrofluorocarburi di oltre l’80% nei prossimi 30 anni. [fonte SCMP]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.